sabato 27 dicembre 2008

LA SCUOLA MEDIA “FAUSTO GULLO” DI VIA POPILIA CONTINUA A VIVERE NELLA SCUOLA ITALIANA

Il SOLE-240RE, nella sua edizione del 18/6/1994 , con un titolo a sei colonne, scrisse che la Scuola in Calabria era rimasta al 1929, tranne che a Cosenza, dove c’era UNA SCUOLA ECCELLENTE: era la Fausto Gullo di Via Popilia.

Via Popilia era il quartiere più degradato di Cosenza, anche se questo, ora, è meno vero. Al suo interno si sta affermando un’edilizia residenziale del ceto medio impiegatizio. Ma questa nuova popolazione, se può, non si integra con il quartiere. I suoi figli non li fa studiare alla Fausto Gullo. Li fa studiare nelle scuole del centro città. La Fausto Gullo, dopo la sua epoca d’oro, è ripiombata nel degrado, da cui sta tentando di risollevarla Rosita Paradiso, suo dirigente attuale.

L’epoca d’oro della “Fausto Gullo” va dal 1983 al 1996, quando un corpo docente giovane, di rara competenza, messo insieme dalla volontà ferrea del suo nuovo dirigente, trasformò la scuola aprendola al territorio. L’obiettivo, che si prefisse questo corpo docente, era ambizioso, ma necessario: CONTRIBUIRE A CAMBIARE IL QUARTIERE ATTRAVERSO GLI ALUNNI.

L’alunno della scuola, nel 1983, era refrattario a qualsiasi regola. Egli mirava solo alla propria sopravvivenza in quel campo di battaglia. Le strutture della scuola erano state devastate dal vandalismo. Al suo interno dominava il bullo-spacciatore esterno che entrava anche nelle aule a dettare legge agli insegnanti. La droga veniva spacciata all’esterno e all’interno della scuola.

Il primo ottobre 1983, primo giorno di scuola della nuova dirigenza, le televisioni locali, compresa RAI3, vennero a riprendere il tradizionale assalto alla diligenza: i guappi del quartiere che venivano a porre il loro marchio sull’anno scolastico che iniziava. Questi guappi erano soliti entrare fin dentro le aule per imporre la loro legge: i loro figli erano gente di rispetto. Docenti ed alunni venivano avvisati.

Ma quel giorno non fu consentito nulla di tutto ciò. Lo Stato era ritornato nella scuola ed imponeva la sua legalità. A nessun genitore fu permesso di entrare nella Scuola. I loro figli erano affidati alla responsabilità istituzionale del Capo d’Istituto, che, insieme agli insegnanti, li riceveva sulla porta.

Un pezzo da “novanta” non gradì questa novità e aggredì fisicamente il Capo d’Istituto. In quell’ attimo si giocava la credibilità della Scuola. La vecchia scuola si sarebbe riaffermata di prepotenza o la nuova era venuta per restare? Reagendo energicamente, ma senza infierire, il Capo d’Istituto diede la risposta. LA PAURA NON AVREBBE PIU’ DOMINATO IN QUELLA SCUOLA. Al suo posto stavano per subentrare le REGOLE DELLA CONVIVENZA DEMOCRATICA.

La scuola fu rivoluzionata nella sua organizzazione fisica. Le si diede un nome, che non aveva. Fu approvato un Regolamento d’Istituto in cui si fissarono l’organizzazione ed i diritti-doveri di tutte le sue componenti: alunni, docenti, non docenti.

Per mutare l’atteggiamento negativo degli alunni verso la scuola e spingerli a riconoscersi in essa, si istituì la CLASSE PERSONALIZZATA, dove gli alunni sarebbero rimasti per tutto il triennio. Per evitare le distinzioni di censo, e per dare un senso di identità agli alunni, fu introdotta la DIVISA SCOLASTICA.

Si attrezzò l’ampia area esterna a Palestra scoperta e a giardino per abituare l’alunno al rispetto e alla cura del verde. La palestra esterna venne dotata di un mini campo erboso di calcio, un campo di pallavolo, un campo di basket, una corsia per i 100 metri piani, una corsia per il salto in lungo, un’area per il salto in alto.

Per promuovere l’impegno allo studio degli alunni e ridurre l’assenteismo, si introdussero I CAMPIONATI D’ISTITUTO (calcio, pallavolo, basket) per classi orizzontali, che si svolgevano durante i 15 minuti di ricreazione. Si introdusse anche la COPPA DEI CAMPIONI per classi verticali per proclamare la classe CAMPIONE D’ISTITUTO.

Per far crescere il senso di responsabilità degli alunni, durante i campionati d’istituto il SERVIZIO D’ORDINE era svolto a turno dalle classi (24 classi). I docenti, presenti, ma, ufficialmente, per tifare per le proprie classi.

Fu completato il secondo edificio destinato alle aule speciali (una per ogni disciplina) e per l’auditorium, che si volle insonorizzato e quadrifunzionale (sala conferenze, teatro, cinema, sala concerti).

Nelle aule speciali si introdusse la MULTIMEDIALITA’ e la INFORMATIZZAZIONE. Il libro nella scuola divenne marginale (l’alunno era un “ragazzo di strada” che aveva scarso amore per il libro). Era la multimedialità e l’uso del computer che motivavano l’alunno all’apprendimento.


Per creare un prestigio alla scuola e per valorizzare le due giovanissime docenti di musica, vincitrici di cattedra a solo 23 anni, fu istituito IL PREMIO NAZIONALE DI MUSICA “IL FLAUTO E LA CLAVIETTA D’ARGENTO”, che ebbe un enorme successo perché la commissione giudicatrice era super partes e ad alto livello: era formata dal direttore del Conservatorio cittadino e due suoi docenti. Su suggerimento del direttore del conservatorio, che voleva stabilire un vincolo più stretto con la Fausto Gullo, la Scuola fu trasformata ad INDIRIZZO MUSICALE.

Ogni anno provenivano oltre mille alunni da tutte le scuole d’Italia. Le eliminatorie del Premio si svolgevano nell’auditorium della scuola. Le semifinali e la finale si svolgevano nello splendido teatro A. Rendano, messo a disposizione dal Comune, il cui assessore alla P.I. era presidente del Premio.

Per motivare ulteriormente gli alunni allo studio, furono istituite tre borse di studio che premiavano il migliore alunno/a delle classi verticali. Il basso livello di preparazione degli alunni suggerì anche l’istituzione di una borsa di studio unica in Italia: quella destinata all’alunno che partiva con forti deficit, ma che, a fine anno, raggiungeva un consistente miglioramento anche se ancora non soddisfacente.

Per legare l’alunno alla scuola e farlo ritornare come ex, fu istituita la festa di addio alla scuola a fine ciclo. Ogni classe preparava un suo sketch con cui salutava la scuola. In questi sketch si aveva licenza di satira verso tutti. La festa si concludeva con un mega pranzo preparato con l’aiuto del Comitato delle Mamme.

Fu fondato il giornale della scuola, LA VOCE DI VIA POPILIA, redatto e stampato in offset dagli alunni ed ex alunni. Per mantenere il contatto con la scuola, agli ex alunni LA VOCE DI VIA POPILIA veniva recapitato per posta.

Per tenere vivo e costante l’interesse e l’impegno delle persone esterne, che davano un grosso contributo al funzionamento e al miglioramento della scuola, fu istituito un Happening per gli auguri di Buon Natale da parte dei docenti. Gli ospiti avevano facoltà di esibirsi.

Per far sentire i genitori parte viva della scuola, fu istituito il Comitato delle Mamme, presieduto dall'incomparabile Sara Vespa, che aveva il compito di sovrintendere a tutti i festeggiamenti che si svolgevano nella scuola, con o senza la presenza di estranei. Questo Comitato ebbe un enorme successo e contribuì moltissimo a far crescere il prestigio della scuola presso le istituzioni cittadine (Comune, Provveditorato) che portavano le delegazioni nazionali ed estere a visitare la scuola.

Per promuovere lo spirito comunitario all’interno delle componenti della scuola (alunni, docenti, non docenti), si istituì il precetto pasquale come momento più alto dei valori dell’uomo. Tutta la scuola, per un’intera giornata, si spostava a camigliatello silano dove, in un parco attrezzato concessoci dell’OVS, si svolgeva la messa al campo organizzata ed officiata dal sacerdote della scuola, Franco Barbieri. Il resto della giornata trascorreva in attività ludiche.

Tutti i muri degli ampi corridoi e degli spazi sociali della scuola furono affrescati con MURALES TEMATICI. Al piano terra i temi erano due: 1) VECCHIO E NUOVO SU VIA POPILIA e 2) ROM SIM (=sono uno zingaro) per promuovere l’integrazione degli alunni zingari attraverso la coscienza della propria identità etnica.

Al primo piano il tema era: il REGNO DELLA FANTASIA. Il secondo piano venne destinato alla GALLERIA DEI RITRATTI: ritratti di tutte quelle autorità esterne che avevano contribuito, in un modo o nell’altro, a far crescere la Fausto Gullo. Un ritratto molto sentito fu dedicato a Pietro Sproviero, preside della vecchia scuola media di Via Popilia (non ancora Fausto Gullo), che lottò per far approvare il modernissimo progetto della nuova scuola, dove egli non mise piede.

Ma l’orgoglio della scuola erano i murales dell’amplissimo e lunghissimo corridoio dell’auditorium. Tutti dedicati al centro storico di Cosenza nella consapevolezza che si stava facendo un’opera di memoria storica. Già oggi, alcuni di quegli scorci raffigurati nei murales, sono irriconoscibili nella realtà fisica a causa del totale stato di abbandono e di degrado del centro storico di Cosenza.

LA NUOVA PROGRAMMAZIONE EDUCATIVA E DIDATICA
Fu approvata una programmazione educativa e didattica innovativa. Si introdusse il Regolamento di Classe, modellato sulla costituzione italiana, che regolava la vita della classe e ne faceva una piccola PALESTRA DI DEMOCRAZIA, come disse Giacomo Mancini, sindaco di Cosenza. L’intento di questo regolamento era quello di far vivere all’alunno la sua prima esperienza di CITTADINO di uno Stato democratico che gli garantisce diritti, ma che gli impone anche doveri.

L’art. 1 di questo regolamento recitava: " La vita della classe è fondato sul principio di lealtà; lealtà verso se stessi attraverso l’impegno allo studio; verso i propri compagni, verso i docenti, verso la scuola e le norme che la governano ".

L’art. 14 recitava: “l’alunno che provoca danni è tenuto al risarcimento” . Un articolo fondamentale che educò gli alunni al RISPETTO DELLE COSE. In 13 anni, il Comune di Cosenza non dovette fare nessun intervento di manutenzione, nè ordinaria, nè straordinaria.

. Fu introdotto il Rappresentante di classe per mantenere un contatto con le altre classi, con il capo d’istituto e con l’esterno. Fu istituita la Conferenza settimanale dei Rappresentanti di classe col Capo d’istituto per stabilire una comunicazione verticale ed orizzontale nella scuola.

Per combattere l’immagine dell’EROE NEGATIVO (il guappo-delinquente che si fa rispettare), fortemente presente nell’immaginazione degli alunni, si introdussero due albi doro: quello d’istituto (chiamato l’ALBO D’ORO DEGLI IMMORTALI), esposto all’entrata della scuola, e quello di classe. L’intento degli albi d’oro era quello di promuovere l’immagine dell’EROE POSITIVO (l’alunno che si distingueva all’interno o all’esterno della scuola per fatti sportivi, culturali e umani).

Furono introdotti progetti didattici trimestrali pluridisciplinari su tutta la problematica formativa. Su ogni progetto convergevano tutte le discipline ed erano organizzati interventi di operatori esterni della problematica in esame.

A fine progetto si svolgeva, nell’auditorium, un dibattito per classi parallele che serviva come scambio di esperienze dei percorsi che ogni classe aveva seguito e dei risultati che aveva raggiunto.

Il progetto educativo-didattico integrale, articolato in ITINERARI DIDATTICI DELLE SINGOLE DISCIPLINE, è pubblicato nel sito www.franco-felicetti.it .

Negli ultimi 20 mesi questi itinerari didattici sono stati consultati, con ripetuti ritorni, da 12.000 insegnanti da ogni parte d’Italia. L’itinerario didattico più cliccato in assoluto è stato quello di APPLICAZIONE TECNICHE.

Questo successo ha un solo significato: la scuola media “Fausto Gullo” del PERIODO D’ORO continua a vivere nell’esperienza delle altre scuole d’Italia.

mercoledì 17 dicembre 2008

LA COSTITUZIONE ITALIANA E’ DA EMENDARE?

Tutte le costituzioni degli Stati moderni sono composte di due parti. Una contiene i principi fondamentali su cui è basata la struttura dello Stato e su cui sono regolati i rapporti all’interno dello Stato.

La seconda parte non è meno importante, ma è più caduca. Le esigenze di uno Stato in crescita può fare sentire il bisogno di rivederla per garantire un miglior funzionamento degli organi dello Stato.

Anche i principi fondamentali possono essere sentiti come superati da un sentimento politico-sociale mutato rispetto a quello che imperava al momento della sua approvazione. Bisogna ricordarsi che la costituzione italiana è il prodotto di un'epoca storica ben definita.

All’epoca della sua approvazione, l’Italia si era appena liberata di un passato oscuro (dittatura). E lo aveva fatto attraverso una dura lotta di liberazione contro lo straniero (Resistenza) e contro i propri fratelli della Repubblica Sociale di Salò, epigoni di un regime (fascismo) che sopravviveva a se stesso.

Alla caduta del fascismo, e con la fine della Seconda Guerra Mondiale, lo Stato italiano si era disintegrato. Le forze antifasciste eletti alla Consulta, unitariamente, lo fecero rinascere a nuova vita e lo rifondarono su nuove basi e, soprattutto, su nuovi e più rivoluzionari principi.

Questi principi erano frutto di una concorrenza di ideologie, di esperienze politiche e della maturata consapevolezza che il nuovo Stato doveva essere proiettato nel futuro per prendere il suo posto tra le grandi democrazie dell'Occidente, da cui era stato escluso per un ventennio.

Di questo momento storico la Costituzione ne porta i segni nella sua forma. È rigida nel suo processo di emendamento. Modificarla diventa difficile se non c’è un accordo molto ampio all’interno del parlamento.

I suoi padri aveva scelto una costituzione rigida perchè non volevano che accadesse più quello che era accaduto con la Statuto Albertino, che Mussolini aveva stiracchiato a piacimento per istituire la sua dittatura.

Questa saggezza istituzionale dei padri fondatori rende difficile, oggi, a qualsiasi forza politica maggioritaria in parlamento di emendarla a proprio piacimento.

Per poterla emendare in tutta tranquillità, senza dover ricorrere al giudizio del popolo attraverso un referendum popolare, la legge di revisione costituzionale deve essere approvata, nella seconda votazione, da ciascuna Camera, a maggioranza di due terzi dei suoi componenti (3° comma Art. 138).


Nella sua applicazione vennero fuori le piccole resistenze e le grandi riserve mentali. L'art. 134, che istituiva la corte costituzionale, fu applicato nel 1956, con otto anni di ritardo.

L'art. 34, che estendeva l'obbligo scolastico fino al 14° anno, fu applicato nel 1962, con 14 anni di ritardo.

L'art. 5, che istituiva le Regioni, fu applicato nel 1970, con ventidue anni di ritardo.

Gli articoli 39 e 40, che regolamentano le organizzazioni sindacali e il diritto di sciopero, non sono ancora riusciti a trovare una applicazione per i feroci contrasti tra le forze politiche e sociali.


I principi fondamentali che la sorreggono non hanno ancora mostrato il segno del tempo. Essi sono quattro: 1) il principio di libertà; 2) il principio di uguaglianza; 3) il principio di autonomia; 4) il principio di democraticità.

Il principio di libertà si concretizza ogni giorno nella tutela delle libertà civili e delle libertà politiche.

Il principio di uguaglianza ha costituito il momento più innovativo e progressivo della carta costituzionale e sostanzia quotidianamente il principio di libertà, introducendo elementi di democrazia economica per rendere effettivamente operante la democrazia politica.

Il principio di autonomia ha corretto l'immagine dello Stato accentratore post unitario e di quello negatore di libertà del periodo fascista, per sostituirla con l'immagine dello Stato democratico e repubblicano, che riconosce e tutela, sulla scia del sistema inglese, le autonomie locali, cioè il diritto dei cittadini all’autogoverno nella sfera degli affari locali

Il principio di democraticità pervade tutta la struttura della costituzione.

Dall'articolo 1 in cui si enuncia che la sovranità appartiene al popolo, all'art. 17, sulla libertà di riunione.

Dagli artt. 18 e 49. sulla libertà di associarsi in partiti, all'art. 48, sulla libertà e la segretezza del voto.

Dall'art. 71 sull'iniziativa popolare legislativa, all'art. 71) che ha istituito il referendum.

giovedì 11 dicembre 2008

LA CRISI DELLA GIUSTIZIA IN ITALIA

I fatti delle procure di Salerno e Catanzaro, due procure che si combattono per affermare la propria supremazia, è stato uno spettacolo che merita una profonda riflessione sulla giustizia in Italia.

L'esperienza storica italiana degli ultimi decenni ha dimostrato che l'indipendenza e l'autonomia della Magistratura non sono messe in pericolo dall'esterno, cioè dagli altri organi dello Stato e dal Governo in particolare.

Ormai negli Stati democratici moderni è profondamente radicato il concetto della separazione dei poteri, che è a fondamento e a garanzia del potere democratico.

L'indipendenza e l'autonomia della magistratura sono messe in pericolo dall'interno della magistratura stessa, e cioè dalla politicizzazione e dal PROTAGONISMO dei singoli magistrati e delle singole procure.

Amministrare la giustizia significa garantire la certezza del diritto. E questa si garantisce solo quando il magistrato, oltre ad essere indipendente e autonomo, riesce a non travalicare i poteri assegnati alla sua funzione. La giustizia come potere non è giustizia: è la prevaricazione di un potere che persegue fini di diversa natura: politici, sociali, economici, ideologici, di affermazione del proprio ego, ecc.

Nel passato questa giustizia come potere era istituzionalizzata ed era esercitata a favore della classe egemone detentrice del potere politico. Il proprietario di Adam Smith, nel Settecento, poteva dormire i suoi sonni tranquillo solo se c'era una magistratura che salvaguardava il suo diritto di proprietà dalla classe operaia sfruttata ed affamata.

Oggi, l'evoluzione del diritto ha fatto giustizia di questa concezione. La giustizia non è di parte. Non è, e non dovrebbe essere, un potere. Ma è, e dovrebbe essere, un servizio reso al cittadino. Per questo la nostra Costituzione postula l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 3) e alla magistratura è stato affidato il compito di garantire questa uguaglianza.

Per questo al singolo magistrato, oltre all'indipendenza e all'autonomia, è stata data tutta una serie di garanzie che lo metteno al riparo da qualsiasi influenza che non sia la sua coscienza.

È reclutato per concorso, è inamovibile, si distingue solo per le sue funzioni e l'azione disciplinare contro di lui è esercitata da un organo di autogoverno (il C.S.M.).

Ma tutto questo non si è dimostrato sufficiente per garantire al cittadino la certezza del diritto e l'imparzialità del giudice. Spesso il singolo magistrato porta con sé sullo scranno le sue passioni politiche e le sue ESIGENZE DI METTERSI IN MOSTRA (protagonismo) che lo fanno allontanare da quell'esigenza di equilibrio e di prudenza indispensabili nella sua funzione.

Quando il giudice è sensibile alle motivazioni del potere, che possono assumere diverse sfaccettature: sensibilità alla politica, intesa come adesione ideologica ad un partito (pratica piuttosto diffusa), alla lusinga della ricchezza, intesa come esigenza di vivere al di sopra dei propri mezzi, e del potere, vissuto "COME DELIRIO DI ONNIPOTENZA” (molto diffuso tra i pretori, per cui si è parlato di "pretori d'assalto"), la giustizia è in crisi e la magistratura nella sua interezza (anche se i guasti sono opera di una minoranza) perde di credibilità e con essa perde di credibilità anche lo Stato se non interviene con una riforma che elimini i guasti.

sabato 6 dicembre 2008

IL BRIGANTAGGIO VECCHIO E NUOVO

Il brigantaggio è un fenomeno politico-sociale che si riproduce ogni qual volta nella storia dei popoli si verificano condizioni ecomici e sociali intollerabili. Oggi questo fenomeno si è materializzato lungo le coste della Somalia. E poichè si svolge sul mare, coloro che lo praticano non vengono chiamati BRIGANTI, ma PIRATI.

Cambia il nome ma il fenomeno è lo stesso. È gente economicamente e politicamente disperata che si ribella all’ingiustizia della estrema miseria e povertà in un mondo circostante ricco ed opulento.

Noi italiani meridionali abbiamo vissuto questo fenomeno sulla nostra pelle. Il nostro brigantaggio, al momento dell’unità d’Italia, fu una protesta sociale contro mali antichi e nuove miserie. Il nostro BRIGANTE si ribellava contro la parte più ricca della nuova Italia. E su questa ribellione si innestò un tentativo politico antiunitario.

Chi non aveva accettato, come definitivo, il nuovo assetto politico della nazione, aveva tutto l'interesse a sfruttare questa ribellione armata per raggiungere i propri fini e perciò le fornì uomini e mezzi.

Il fenomeno del brigantaggio, che interessava vaste aree del Mezzogiorno, era più acuto nelle aree economicamente più depresse e dove le condizioni di vita del contadino erano più disperate, il quale perciò non aveva nulla da perdere. La terra era posseduta a latifondo o a manomorta e le altre opportunità di lavoro erano non esistenti.

Che alla base di questa ribellione ci fossero delle motivazioni sociali era perfettamente noto al Governo e alla classe politica che sedeva in parlamento. Ma invece di affrontarla e vincerla con misure politico-sociali, quali la riforma agraria e un vasto programma di lavori pubblici, si preferì combatterla e vincerla col piombo e la legge marziale.

Nel 1865 il brigantaggio meridionale fu domato, ma con un numero di morti che superava quello complessivo delle guerre e delle rivoluzioni del Risorgimento e con una profonda ferita sul tessuto sociale e nazionale.

I soldati regolari "piemontesi" erano venuti a combattere i loro fratelli "cafoni" e si trovarono di fronte ad una realtà territoriale e sociale allucinante: i "cafoni" era gente che era stata punita da Dio e dagli uomini. Senza terra. Senza danaro. Spesso senza casa dove vivere. Senza cimiteri. Falcidiati dalla malaria, dalla pellagra, dalla mortalità infantile, tra cui l'analfabetismo toccava punte del 90%.

venerdì 28 novembre 2008

DEMOCRAZIA DIRETTA E DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA

Il nome astratto "democrazia" è uno dei termini più antichi del vocabolario politico. Essa deriva dal greco Democrazia ed è composto da demos (popolo) e Kratos (autorità). Furono i greci, infatti, e più precisamente gli Ateniesi, a fare il primo esperimento di governo democratico, che raggiunse il suo pieno sviluppo tra il V e il IV secolo a.C.

Tuttavia il concetto che i greci avevano della democrazia è del tutto diverso da quello moderno. Per essi, infatti, governo democratico voleva dire partecipazione diretta (demodrazia diretta) alla formazione delle leggi. Partecipazione diretta alla direzione politica ed amministrativa dello Stato e alla amministrazione della giustizia, mediante un sistema di rotazione delle cariche, per cui ogni cittadino di tempo in tempo occupava le massime cariche dello Stato.

Tutto ciò era possibile, in quanto la popolazione della città-Stato di Atene ammontava a poche migliaia di abitanti, e non era difficile riunirsi nella piazza del mercato per discutere sugli affari dello Stato. Inoltre questo diritto era riservato soltanto ai cittadini che formavano una classe ristretta, chiusa ed inaccessibile. Ma oggigiorno che la popolazione di ogni Stato ammonta a milioni di individui-cittadini, sparsi su un territorio almeno venti volte più grande di quello di Atene, non sarebbe possibile adottare il metodo della democrazia diretta.

L'ampliamento dei confini dello Stato. La dilatazione delle sue funzioni. La complessità della sua organizzazione hanno fatto sorgere un nuovo tipo di democrazia, dove l'individuo, il cittadino, l'uomo delle strada ha perso il contatto diretto con lo Stato. La sua partecipazione alla vita dello Stato avviene tramite dei rappresentanti che egli di tempo in tempo elegge per rappresentarlo nei massimi organi dello Stato.

In questo tipo di democrazia, l'individuo resta isolato e privo di qualsiasi influenza se non si associa ad altri individui che condividono le sue stesse idee. Che hanno i suoi stessi bisogni. Che hanno le sue stesse aspirazioni.

Di quì il sorgere dei partiti politici, dei sindacati e delle associazioni in genere. Solo tramite queste organizzazioni l'individuo ritorna ad acquistare quel peso che aveva nella democrazia diretta. Ma il diritto di voto, da solo, non basta per qualificare democratico uno Stato. Perché ci sia democrazia ci devono essere anche ideali, fini e valori, comuni a tutta la comunità

mercoledì 19 novembre 2008

IL SOCIALISMO SI PUO’ TRADIRE IN TANTI MODI

Ho letto con grande rammarico la missiva di Pino Iacino ai socialisti. A tutti noi della diaspora socialista Iacino vuole dare una casa. Ma la casa che egli propone è una casa sbagliata. È stata condannata dalla Storia e sopravvive negli epigoni del comunismo come mentalità egemonica grazie ad una magistratura compiacente che ha tolto di mezzo l’ultimo grande GRANDE GUARDIANO DEL SOCIALISMO DAL VOLTO UMANO: BETTINO CRAXI.

Se accettassimo l’ingenua proposta di Iacino finiremmo come i Bruzi. L’esercito romano li volle nei loro ranghi, ma per umiliarli e far svolgere loro, grandi guerrieri, lavori di bassa manovalanza. Craxi aveva ragione quando disse “noi potremo stare in una casa comune con i comunisti solo quando noi saremo maggioranza e loro minoranza”.

Io allora ero troppo giovane per capire. Non sono mai stato un craxiano. Da intellettuale, che si affacciava sulla scena politica, ero un lombardiano. Ma quelle parole di Craxi mi rimasero nel profondo.

La loro verità l’ho scoperta come sindacalista socialista della scuola. La sinistra unita era raggruppata nel SNSM, un sindacato unitario della scuola rappresentativo di tutte le forze politiche nazionali. Nella componente di sinistra, i socialisti erano maggioranza. I comunisti minoranza. Un ruolo che essi non amavano e non amano. Per questo consumarono una scissione e formarono un sindacato scuola in seno alla CGIL.

Da quel momento hanno incominciato a mandare messaggi agli ingenui socialisti alla Iacino (lo premieranno dandogli il posto che fu di Cecchino Principe?). “La sinistra deve stare unita in un’unica casa”. Loro malgrado, i socialisti sono sempre stati sensibili al richiamo dell’unità delle forze di sinistra.

Lo furono con Nenni nel 1948, quando firmarono il Patto di Unità d’Azione (che, per fortuna, non vinse le elezioni). Lo furono i socialisti della scuola nel 1965/66. Ma in questa ritrovata casa comune del sindacato scuola, i socialisti divennero minoranza. Tutto era monopolizzato dalla volontà egemonica dei comunisti.

Craxi apprese questa lezione. Anch’io, modestamente, appresi la lezione e mi rifiutai di entrare nella casa comune del sindacato-scuola targato CGIL. Iacino quella lezione non l’ha mai appresa. Né l’apprenderà mai. Egli ha una mente pulita (per questo lo stimo). Egli è potenzialmente buono per svolgere il ruolo che, nel PD nazionale, svolge Franceschini: l'UTILE IDIOTA, una figura a cui l’ideologia comunista ha sempre fatto ricorso per carpire la buona fede degli ingenui.

Pino Iacino non ha ancora maturato il pensiero che il SOCIALISMO non deve necessariamente essere ristretto in un partito. Il socialismo è un’IDEA. È l’idea di libertà, che non può essere asservita a nessun potere. È l’idea di giustizia sociale. È l’idea dell'umanità dell'uomo verso l'uomo. E questa idea alberga nella mente degli uomini. Nella mente dei Brunetta, dei Sacconi e di tutti coloro che vogliono mutare la realtà per migliorare la condizione umana e sociale dell'uomo.

venerdì 14 novembre 2008

LA RELIGIONE COME PERNO DI TUTTO: LA MANCATA SECOLARIZZAZIONE DELL’ISLAM E L’IMMIGRAZIONE DI FEDE ISLAMICA IN ITALIA

Fino a tempi non molto lontani, in Europa si pensava che il sentimento religioso fosse un elemento coagulatore essenziale dei vincoli culturali della nazione.

Si pensava che un popolo, che professasse fedi diverse, non potesse costituire un'unità nazionale e si riteneva che queste fedi diverse provocassero attriti fra i differenti gruppi della popolazione. La quasi totalità dei governi confondevano la sottomissione religiosa con la sottomissione politica.

Dopo le GUERRE DI RELIGIONE del XVI-XVII secolo, che insanguinarono tutta l’Europa in una lotta fratricida, in Europa si affermò il PRINCIPIO DI SECOLARIZZAZIONE ed incominciò a farsi strada il concetto che la diversità religiosa non impedisce ad un popolo di avere tante cose in comune da fargli sentire fortemente il vincolo nazionale.

Questo fu il caso della Germania divisa in un nord fortemente protestante e un sud marcatamente cattolico. Fu il caso dell'Olanda, dove vi era i1 45 per cento di cattolici e il 55 per cento di protestanti di varie confessioni.

È il caso degli Stati Uniti dove esiste una miriade di sette religiose accanto alla chiesa cattolica e protestante. Eppure questi popoli hanno una coscienza nazionale molto più accentuata di altri popoli che professano un'unica religione.

I nuovi immigrati di fede islamica in Europa, in linea di principio, dovrebbero integrarsi nella nazione che li ospita e non dovrebbero costituire un pericolo per l’unità nazionale fin tanto che rimarranno minoranze.

Ma loro religione non ha subito la grande catarsi delle Guerre di Religione, come avvenne per la fede cristiana in tutte le sue sfaccettature. La religione islamica non ha ancora superato il grande spartiacque della SECOLARIZZAZIONE. Tra Stato e fede c’è un’unità indissoluta.

Lo Stato islamico attuale, in effetti, è una teocrazia, dove il potere politico è nelle mani degli ayatollah, la casta sacerdotale. Questa mancata SECOLARIZZAZIONE della Stato islamico, nel futuro, potrebbe creare dei problemi se le minoranze islamiche dovessero crescere e moltiplicarsi senza essersi liberati della loro mentalità della religione come perno di tutto.

sabato 8 novembre 2008

GLI INTERESSI LEGITTIMI NEL PROCESSO DEMOCRATICO

I popoli più avanti di noi nel processo democratico hanno maturato la convinzione che tutti gli interessi sono legittimi quando non contrastano con l'interesse generale dei cittadini

Purtroppo, nella nostra cultura è prevalsa l'opinione, e la prassi, ormai consolidata, che gli interessi di chi gestisce il potere siano più legittimi dell'interesse della generalità dei cittadini perchè sono un mezzo per perpetuarsi al potere.

In queste condizioni, i problemi che si risolvono sono solo gli interessi dei CLIENTES degli amministratori.

Gli altri cittadini hanno diritti più deboli e spesso vengono stritolati dalla macchina burocratica dell'amministrazione pubblica.

domenica 2 novembre 2008

L’UTILE IDIOTA

L’utile idiota è una figura creata dal comunismo sovietico. Fu Lenin a crearla. Quando non era politicamente conveniente apparire con la propria immagine di partito comunista, si metteva in primo piano una figura rassicurante di altra forza politica, una persona di solo facciata, che serviva a carpire la benevolenza dell’opinione pubblica in generale. Ma, dietro le quinte, i comunisti esercitavano il vero potere.

Anche se il comunismo sovietico non esiste più, la figura dell’utile idiota non è scomparsa. Le mentalità sono difficile a morire. Si può cambiare pelle, ma la mentalità rimane quasi immutata. E lo rimarrà per generazioni. Sparirà solo nel lunghissimo periodo. In gergo si dice “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”.

Nella fusione tra il Partito Democratico di Sinistra (PDS) e la Margherita (ex democristiani di sinistra) ci sono due figure in primo piano: Walter Veltroni, che si era creata l’immagine dell’ ex comunista “buono”, e Franceschini, un uomo scolorito, ma utilissimo per svolgere il ruolo di utile idiota.

Un uomo come D’Alema, da parte del PDS, era troppo caratterizzato per essere messo in primo piano. Veltroni era meno caratterizzato come ex comunista. Non aveva frequentato la famigerata “scuola di partito” come D’Alema, dove si formavano le grandi élite del partito comunista. Veltroni si era sempre distinto come amante della democrazia americana. Insomma, egli si era contraddistinto più come LIBERAL che come post-comunista. Egli era l’uomo giusto al posto giusto al momento giusto. Non faceva paura a nessuno.

Diversamente nella Margherita. Un uomo ritenuto pericoloso per la nascente Unione tra PDS e Margherita era Ciriaco De Mita. La sua intelligenza politica, e la sua qualità caratteriale di non reggere la candela a nessuno, incutevano timore. Se si voleva augurare lunga vita al nascente Partito Democratico, Ciriaco De Mita era un uomo da eliminare e, alla prima occasione, fu fatto fuori. Costretto ad autosfrattarsi dal partito.

Franceschini non aveva, e non ha, una robusta consistenza politica. Per questo motivo era l’uomo giusto al posto giusto. Era abbastanza incolore per svolgere il ruolo di “buonista” a fianco di Veltroni. Insomma, egli era l’utile idiota che serviva per mantenere calma e buona la gente della Margherita.

Un uomo come Rutelli, di vivace intelligenza, politicamente più ricco, difficilmente catechizzabile, fu spinto in seconda fila.

Ma una domanda dobbiamo porcela: riuscirà il nostro utile idiota a salvare il popolo della Margherita dalla volontà egemonica dei post comunisti o sarà anch’esso CANNABALIZZATO come è avvenuto per quei socialisti che hanno creduto nella sirena dei comunisti prima e dei post comunisti oggi?

giovedì 30 ottobre 2008

COSENZA: URBANISTICAMENTE SQUALLIDA PERIFERIA DI RENDE?

Non è un hotel a 5 stelle che salverà Cosenza dal suo fato prossimo venturo. Il fenomeno che sta accadendo sul suo territorio è chiaro e leggibile. Ma gli attuali Amministratori sono ciechi e sordi. Oppure fanno come gli struzzi: per non vedere una realtà sgradevole mettono la testa sotto la sabbia.

Mentre Rende si struttura sempre più come una città cosmopolita, Cosenza arretra. Tranne il grande gioiello dell’isola pedonale di corso Mazzini, Cosenza non offre nulla. Urbanisticamente è una città costruita male. La maggior parte del suo territorio è coperto di casa popolari o di edilizia economica, triste eredità del dopoguerra.

Case popolari sulla grande arteria di via Popilia. Case popolari a S.Vito. Case popolari a Torre Alta. Case popolari sul lungo Busento. Edilizia economica ad ovest di Via Veneto e Piazza Cappello.

Cosenza non è cresciuta in base ad un piano urbanistico lungimirante, anche se, negli anni sessanta, fu chiamato a redigere il piano regolatore Elio Vittorini, uno dei massimi urbanisti italiani dell’epoca.

Ma è inutile recriminare sul passato. Acqua passata non macina più. Quello che è da condannare, con forza, è l’inerzia e la mancanza di immaginazione degli Amministratori attuali, che assistono passivamente a questo lenta perdita di status di Cosenza nei confronti di Rende.

Mentre Rende è un brulicare di vita, Cosenza sta progressivamente diventando spenta. Senza vita. Il fermento di vita si sta spostando su Rende sia di giorno che di notte. La MOVIDA ha ormai una caratteristica quasi esclusivamente rendese.
Cosenza ha rinunciato a conservare il suo storico status di città-guida quando non ha saputo cogliere l’occasione per fare del centro storico la più grande ed eclatante attrazione turistica di tutto il Mezzogiorno.

Ma vi ha rinunciato anche quando non ha avuto la fantasia di mettere mano alla struttura urbanistica della città. Quando non ha saputo immaginare la trasformazione di una città orizzontale, quale Cosenza è, in una città verticale, liberando spazi per fare di Cosenza una città a dimensione d’uomo, con servizi di primo livello.
Trasformare urbanisticamente una città oggi si può. All’estero lo fanno. Le tecniche ingegneristiche hanno fatto passi da gigante. Anche una zona ad alto rischio sismico può diventare una città verticale.

Se gli Amministratori di Cosenza avessero questa apertura mentale raggiungerebbero un doppio risultato. Eliminerebbero, inglobandole, le varie zone di disagio sociale, i vari ghetti, e farebbero di Cosenza un polo di aggregazione e di attrazione di alto livello, dove la vita rifluirebbe copiosa.

Per gli amministratori di Cosenza non ci sono giustificazioni perchè questo riordino urbanistico sarebbe a costo zero per le casse comunali. Il Comune dovrebbe solo “guidare” questa “rivoluzione” ad opera dell’iniziativa privata, che investirebbe i suoi capitali creando ricchezza e lavoro almeno per i prossimi vent’anni.

Il "Gruppo giovani imprenditori edili Ance" in un convegno, tenuto in Comune, si è autodefinito “I giovani costruttori della città di domani”. Diamo loro l’opportunità di verificare la concretezza delle loro idee.

Ma è fondamentale che anche il corpo elettorale faccia la sua parte: eleggere, come recita la legge, un Amministratore Unico che abbia idee e fantasia, alla Giacomo Mancini senior, e non un PRIMUS INTER PARES senza idee e senza fantasia, che spende tutto il suo tempo a MEDIARE gli inconfessabili interessi dei “suoi” (si fa per dire) collaboratori.

Se il cittadino abdica alla sua capacità di scelta, alla sua capacità di discrimine dei candidati a Sindaco della città, e non capisce che la nuova legge sulle elezioni comunali e provinciali ha messo fine allo strapotere clientelare dei partiti e ha restituito all'uomo, come singolo, tutte le responsabilità della gestione della cosa pubblica locale, non c'è salvezza. Tutto continuerà come prima e questa volta non possiamo attribuirne la colpa che a noi stessi che non abbiamo saputo cogliere questa grande opportunità di rinnovamento.

sabato 25 ottobre 2008

UN FONDAMENTALE DIRITTO DEL CITTADINO: LA LIBERTA' DALLA PAURA

In questi giorni di tremenda crisi finanziaria ed economica incomincia a serpeggiare nella mente del cittadino LA PAURA.

La paura di un futuro buio, fatto di un ritorno alla povertà e alla perdita di tutto il sistema dei diritti economici e sociali che l’uomo ha faticosamente conquistato nella storia.

Negli Stati assoluti, che uscivano dal medioevo, l'individuo, che non era ancora un cittadino, ma un suddito, aveva solo doveri. Questo era anche vero per l'Inghilterra. La Magna Carta del 1215, infatti, non concedeva nessun diritto al suddito, ma rappresentava un contratto stipulato tra il re ed i suoi baroni per il riconoscimento dei reciproci diritti.

Il suddito di questi Stati era completamente assoggettato alla supremazia del sovrano, che lo gettava in prigione senza un regolare processo, lo tassava senza il suo consenso, acquartierava i soldati nella sua casa, lo derubava della sua proprietà, gli proibiva di professare una religione diversa da quella ufficiale, ecc.


Nello Stato moderno, invece, l'individuo, non più suddito, ma cittadino, entra in contatto con lo Stato in un rapporto di diritti e di doveri. Il primo e fondamentale diritto che gli è riconosciuto è la libertà dalla paura della disoccupazione, della vecchiaia, della povertà, delle malattie, ecc.

Senza questo primo e fondamentale diritto economico, tutti gli altri diritti civili e politici, di cui il cittadino gode sin dalla nascita, perdono di valore e lo rendono meno libero.

Riflettiamoci . E confidiamo nella saggezza degli Stati che sappiano trovare gli strumenti giusti per superare questa tremenda crisi finanziaria-economica che potrebbe riportarci ai tempi bui del passato.

Tuttavia, un risultato notevole e positivo questa crisi l’ha raggiunto. Ha fatto prendere coscienza a tutti i governi, Occidentali e non, che, in un mondo ad economia globalizzata, le regole di Bretton Woods vanno strette. Vanno riscritte. E questo è l’impegno che hanno preso sia i governi Occidentali che quelli emergenti asiatici e sudamericani.

Se questo avverrà, la crisi sarà stata salutare perchè ci darà un mondo migliore e più affidabile.

giovedì 23 ottobre 2008

I CONCETTI CHE CONTANO:RAZZA E RAZZISMO

La teoria della razza pura fu sviluppata e portata alle sue estreme conseguenze soprattutto nella Germania di Hitler.

La supposta discendenza da un capostipite comune e la rassomiglianza fisica furono presi come segni di superiorità razziale. I teorici del nazismo affermavano che il popolo tedesco costituiva una razza pura, non inquinata da altre razze.

Secondo Hitler le qualità intrinseche dell'uomo sono determinate dalla sua discendenza o dal suo sangue. E i tedeschi erano la più alta specie umana che la grazia dell'onnipossente avesse concesso a questa terra.

Chiunque fosse nato da genitori tedeschi, in qualsiasi parte del globo terrestre, sarebbe rimasto per sempre tedesco nel suo carattere e sarebbe appartenuto alla razza eletta.

Gli antropologisti, comunque, affermano che in Europa non vi sono razze pure e che probabilmente non ve ne sono nel mondo.

Generalmente la popolazione di una nazione è composta da razze o stirpi diverse che, nel tempo delle migrazioni, hanno vagato su uno stesso territorio.

mercoledì 15 ottobre 2008

I CONCETTI CHE CONTANO: NAZIONE E NAZIONALISMO

Il concetto di nazione e quello di nazionalismo hanno giocato un grande ruolo nella storia d'Italia. Il primo ci ha fatto sentire, nel XIX secolo, di appartenere ad un unico gruppo culturale, linguistico, storico, etnico e ci ha condotto alla costituzione di uno Stato unitario.

Il secondo, che è una esasperazione del primo, nel XX secolo ci ha fatto ubriacare di potenza (FASCISMO) e ci ha condotto alla totale distruzione della Seconda Guerra Mondiale, facendoci odiare il termine stesso dì "patria" e di "nazione", che abbiamo sostituito nel dizionario politico col termine "paese" e abbiamo coniato l'espressione ’ALL’ITALIANA’, “per indicare una cosa mal fatta, in modo approssimativo, raffazzonata alla meglio, da pasticcioni che vogliono fare i furbi o da furbi tanto pasticcioni che anche un ingenuo si accorge dell'inganno...

“In Italia, il sentimento nazionale, se non proprio spento, è assopito, estenuato. Ha dato un soprassalto. Ma non bisogna confondere una convulsione con un moto dì lunga durata. Ciò che ha costituito il cemento che ha tenuto insieme la nostra Repubblica, non è l'idea di nazione, ma la lotta per la libertà, per la giustizia sociale, per un Paese civile.

“Una battaglia non vinta, che deve continuare. Vincere questa battaglia è forse l'unica via attraverso la quale il sentimento nazionale potrà riprendere nuovo vigore» (Noberto Bobbio, in La Stampa; Anno 119, n. 265, 30 Novembre 1985. 10)

venerdì 10 ottobre 2008

LA CRISI FINANZIARIA IN BORSA

Entro in un campo non mio. Ma, per quello che so di economia, e non è poco, sento il dovere di dire anche la mia. Sto seguendo questa crisi in borsa da parecchio tempo e penso che gli “esperti”, in questo momento, non diano il MESSAGGIO giusto a chi ha investito i propri risparmi in azioni di aziende quotate in borsa.

Quando si dà il consiglio di non lasciarsi prendere dal panico si sta giocando in difesa. E chi gioca in difesa è sempre un perdente. E il panico prima o poi subentrerà se le vendite continuano così massicce.

Gli “esperti” dovrebbero fare un’altra lettura della situazione in borsa in questi giorni. Con i prezzi delle azioni così basse, E’ UNA GRANDE OPPORTUNITA’ PER INVESTIRE TUTTO IL DENARO DI CUI SI DISPONE.

I prezzi delle azioni in questi giorni non rispecchiano assolutamente il valore reale delle aziende. Comprare oggi a questi prezzi significa fare un grossissimo affare da qui 4/6 mesi. Ma anche prima di 4/6mesi.

Appena il mercato si calmerà i prezzi schizzeranno verso l’alto con una velocità supersonica.

E’ un peccato che io non abbia soldi da investire. Ma il consiglio che do a chi ne ha è: COMPRARE… COMPRARE … COMPRARE
E non ve ne pentirete.

mercoledì 8 ottobre 2008

IL SENSO DELLO STATO

Il senso dello Stato è una merce che non ha molto successo in Italia. L'esperienza storica ci ha sempre portato a diffidare di uno Stato che era, di volta in volta, gendarme, classista o totalitario.

La breve esperienza in corso di Stato democratico non è ancora riuscita a cancellare l'immagine storica di uno Stato avulso e distante che imponeva solo doveri, per sostituirla con l'immagine dello Stato-amico, democratico e repubblicano, che si è impegnato «a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (ART. 3 DELLA COSTITUZIONE ITALIANA).

IL SISTEMA ELETTORALE E LA PRATICA SPARTITORIA DEL POTERE POLITICO

Il sistema elettorale proporzionale senza sbarramento, come l’abbiamo vissuto in Italia, ha sempre provocato la polverizzazione delle forze politiche organizzate (partiti).

Tranne che in un’unica, lodevole eccezione, questo sistema elettorale non ha quasi mai consentito la creazione di un Governo monocolore che avesse la possibilità di governare per l'intera durata del mandato.

I governi di coalizione sono stati sempre una necessità. Ma questo non era il male. In molti Stati, molto più maturi di noi politicamente, i governi di coalizione sono stati forti e stabili. Ma in questi Stati, come nella Germania, le coalizioni erano formati da due/tre partiti al massimo.

In Italia, invece, le coalizioni erano multipartitiche. Un partito molto corposo, sempre lo stesso, che per poter governare si circondava di una serie di partiti lillipuziani, i quali, per acquistare più forza, usavano l’arma del ricatto. Se non ottenevano quello che volevano mettevano in crisi la coalizione.

Questo situazione di debolezza delle coalizioni ha generato l'aberrante pratica SPARTITORIA del potere politico, che si diffuse anche all’interno dei partiti stessi.

Inoltre, la mancata possibilità di controllo, attraverso l'alternanza al potere tra opposizione e maggioranza, ha scatenato gli appetiti insaziabili dei singoli e dei gruppi all'interno dei partiti stessi, che vedevano nel denaro un mezzo necessario per acquisire un sempre maggiore potere di condizionamento politico.

In queste condizioni si è creata una nuova etica politica: l'illecito diventava lecito e i problemi reali della cosa pubblica passavano in seconda linea.

Perpetuarsi al potere diventava, di fatto, l'esigenza predominante.

domenica 28 settembre 2008

IL CENTRO STORICO DI COSENZA NON LO FAREMO MORIRE

L'idea di Franco Felicetti di rivitalizzare il centro storico di Cosenza attraverso la creazione di piccole “isole storiche” situate dentro ed attorno ai lati di Corso Telesio è – come al solito – particolarmente acuta e rispecchia un'intero filone culturale, quello che – ad esempio – ha portato la regione della Vandea francese a riscoprire il proprio passato e a dar vita a vere e proprie kermesse in costume ad uso turistico.La Francia ha probabilmente la maggiore tradizione storiografica del mondo: può permettersi di riscoprire le proprie radici e di mettere in piazza il suo passato, facendolo rivivere da attori in costume che poi null'altro sono se non i diretti discendenti di coloro le cui gesta fanno ora parte del tessuto della memoria collettiva.Ritrovarsi in ambientazioni antiche – sopratutto se l'intera operazione avrà l'avallo ed il sostegno autorevole della nostra Università – consentirà a studenti, appassionati, turisti e semplici curiosi di compiere – al tempo stesso – un percorso ludico e culturale ad un tempo, che potrebbe essere imitato in molte altre parti del nostro asfittico Mezzogiorno.Se poi – addirittura – la stessa operazione fosse fatta a costo zero, e conoscendo Franco Felicetti mi pare che l'ipotesi sia tutt'altro che irrealistica - viene da chiedersi come mai la cosa non si sia ancora realizzata.Non si può sottacere che fra amministratori intelligenti, come qualcuno fra quelli citati nell'articolo, il Comune di Cosenza annoveri anche cariatidi campioni di immobilismo.Ma non c'é problema: caro Franco, posso garantirti che la questione potrebbe essere soltanto rimandata. Sarà mia cura, sia pure come modesto esponente di uno dei più autorevoli partiti attualmente in campo, porre il problema dei mezzi per la rivalutazione di Cosenza vecchia al centro del dibattito politico prossimo venturo.Alla faccia dei vari Gattopardi, storici anche loro, ma che starebbero meglio metaforicamente impagliati nel museo all'aperto che vuoi creare.
Antonio Chiappetta
Componente esecutivo regionale di Italia dei Valorie responsabile del dipartimento Mezzogiorno del partito.

giovedì 25 settembre 2008

IL CENTRO STORICO DI COSENZA MUORE PER CONDANNA DELL’UOMO

I MURI DEL CENTRO STORICO NON SI TOCCANO!. Questo è il refrain che si sussurra negli ambienti che si ammantano di sigle prestigiose (UNESCO, ITALIA NOSTRA, etc… etc.) per nascondere la forte miopia da cui sono affetti.

Forse sarebbe il caso di ripetere le parole di Cristo sulla croce: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno.”

Come ha bene scritto Rosita Gangi su “IL QUOTIDIANO”, con il progetto “il centro storico come città del tempo libero”, i muri del centro storico perderebbe solo la muffa. I murales, di cui parla il progetto, non sono di FANTASIA, ma sono MURALES TEMATICI.

Il loro tema è la storia. Quella storia di cui quei muri sono stati testimoni e i cui abitanti del tempo hanno vissuto sulla propria pelle.

E’ la storia dei Bruzi-romani. E’ la storia dei Normanni (Francia, Inghilterra). E’ la storia degli Svevi (Germania). E’ la storia degli Aragonesi (spagna). E’ la storia degli Angioini (Francia).
Tutti popoli che hanno contribuito, nel bene e nel male, a fare la storia di Cosenza antica e hanno aggiunto “viuzza” a “viuzza”.

I muri di oggi sono impregnati di questa storia che ha fatto di Cosenza l’Atena della Calabria. E su questi muri, che alcuni vogliono intoccabili, si vuole scrivere-raccontare questa storia trasfigurata in espressione artistica per farne un RICHIAMO turistico a livello europeo. Ma non solo questo. Hanno anche un funzione pedagogica: far prendere coscienza a noi posteri delle nostre radici.

Quanti di noi sanno che la Rocca Bretica, di cui ha parlato Rosita Gangi su “IL QUOTIDANO”, rappresenta lo SPARTIACQUE nella storia dei BRUZI? Da SERVI dei Lucani, dopo la strepitosa vittoria, diventano UOMINI LIBERI e incominciano a costruire il loro futuro. Un futuro brillante a cui i romani hanno messo fine prematuramente.

Quanti di noi sanno che la battaglia della Rocca Eretica fu condotta da UNA RAGAZZA BRUZIA? Con ben QUATTRO SECOLI DI ANTICIPO sulla più famosa BOADICEA, la ragazza britannica che, nel 60 d.C., capeggiò la rivolta contro gli odiati Romani che occupavano l’odierna Inghilterra.

Boadicea non fu fortunata come la ragazza bruzia, ma gli inglesi ne hanno fatto il CAMPIONE DELLA LORO LIBERTA’ e la sua statua si trova davanti al parlamento inglese ad imperitura memoria.

Ecco questa è la storia che i murales del progetto vogliono raccontare. Innalzeremo anche noi una statua alla più fortunata ragazza bruzia a simbolo della determinazione e del coraggio di Bruzi, di cui noi siamo figli? Perché gli storici dell’università della calabria non fanno una ricerca per dare un nome a questa ragazza?

Perché la sua statua non metterla sul ponte Mario Martire rivolta verso la “sua” Rocca Bretica (quartiere di Santa Lucia)?.

sabato 20 settembre 2008

IL DEFICIT DEGLI ENTI LOCALI: PRIVILEGI E PREZZO POLITICO

L’Italia era, ed è ancora, il paese dei privilegi e del prezzo politico dei servizi.

Il privilegio era un segno di distinzione delle classi protette, le quali venivano esentate dal pagamento di alcuni tributi e tasse.

Il prezzo politico era il segno della povertà del paese. I bassi salari

Nello Stato democratico moderno sono un assurdo.

Il concetto di privilegio è superato dal concetto di uguaglianza.

Lo svilluppo economico ha fatto superare il concetto del prezzo politico dei servizi per introdurre il concetto di prezzo economico. Per cui ciascuno paga per quello che riceve e le aziende che forniscono servizi hanno i conti in pareggio.

Perchè l’Italia stenta a liberarsi di questi due retaggi storici?

domenica 14 settembre 2008

LA BORGHESIA, LE CITTA' E L'IDEA DI AUTOGOVERNO

Il feudalesimo aveva messo in crisi il potere centrale dell'impero ed aveva affermato il particolarismo dei signori. Con la ripresa del commercio (XI-XII sec.), le antiche città, a cui se ne aggiunsero altre di nuova formazione, rinacquero a nuova vita sotto la spinta di un ceto mercantile borghese.

Il borghese era l'uomo nuovo della storia. Per le sue attività mercantili aveva bisogno di libertà e sicurezza ed i signori feudali erano incapaci di garantirle. Nè poteva garantirle l'impero, che era distante ed impotente.

Al borghese non restava che una sola strada: usare la sua borsa per comprarsi le autonomie, come si chiamava allora la libertà di fare, dal signore feudale e decidere del proprio destino.

L'autogoverno delle città nacque in questo modo. Qualche volta l'autogoverno venne difeso sui campi di battaglia e le città divennero il centro del rinnovamento totale della società.

domenica 7 settembre 2008

IMMUNITA’ PARLAMENTARE E POTERE DEI GIUDICI

L’immunità parlamentare viene da lontano. E’ il frutto di una lunga lotta tra il nascente parlamento e il sovrano inglese. Il concetto della divisione dei poteri era ancora nella mente di Dio.

Nel Medioevo, il sovrano assommava tutti i poteri: legislativo, esecutivo, giudiziario e poteva disporre, a suo piacere, dei beni e della libertà dei suoi sudditi.

Era un sovrano assoluto, anche se in Inghilterra questo non è stato mai completamente vero. A partire dal 1215, i baroni, che erano il vero contropotere all’interno dello stato, costrinsero Giovanni Senza Terra a firmare la MAGNA CARTA, il primo documento di valore costituzionale.

La MAGNA CARTA era riuscita ad imporre alcuni limiti al potere del re. Nei secoli successivi, il nascente parlamento cercò di estendere questi limiti fino ad includervi l’IMMUNITA’ DEL PARLAMENTARE.

Ma, fino al XV secolo, al parlamentare non era riconosciuta alcuna immunità. Bastava che egli usasse un linguaggio non troppo ossequioso verso il sovrano per essere arrestato ed imprigionato. Riacquistava la sua libertà solo quando il re ne decideva la scarcerazione.

Questo potere di privare della libertà il parlamentare, che “aveva espresso troppo liberamente il proprio pensiero sulle questioni di Stato”, costituiva per il sovrano un deterrente formidabile per piegare ai propri voleri il singolo parlamentare.

Con la nascita dello STATO DEMOCRATICO, che introdusse il principio della DIVISIONE DEI POTERI (legislativo, esecutivo, giudiziario), l’IMMUNITA’ PARLAMENTARE divenne un anacronismo che sopravviveva a se stessa.

Anche se fu introdotto il correttivo che la Camera di appartenenza (Senato o Camera dei deputati) poteva dare, su richiesta della magistratura, l’autorizzazione a procedere contro un parlamentare che si era reso colpevole di reati che prevedevano l’arresto.

Nella realtà dei fatti, però, ogni forza politica faceva quadrato attorno al proprio parlamentare e l’IMMUNITA’ divenne un intralcio alla giustizia.

Ma la sua cancellazione innescò un problema antico, ma di nuovo conio: l’arresto facile. Se prima l’EQUILIBRIO TRA I POTERI veniva sistematicamente rotto dal PARLAMENTO, questa volta è la MAGISTRATURA che tende a travalicare i suoi limiti democratici.

Il potere di arresti facili, al di fuori della criminalità comune, non deve e non può essere concesso a nessuno. Di questo potere una certa magistratura in Italia ne sta facendo un abuso. Non sempre giustificato dalla gravità del reato.

Un eccessivo potere dei giudici può diventare pernicioso per la democrazia. Pensiamoci finché siamo in tempo.

domenica 31 agosto 2008

IL PARLAMENTO E LE CARTE COSTITUZIONALI

La Grecia classica aveva inventato la democrazia diretta. Le tribù germaniche, che sconvolsero tutto il mondo civilizzato occidentale nel V secolo, non avevano uno Stato organizzato con regole scritte (costituzioni) come i Greci. Avevano le loro consuetudini, che erano consuetudini di libertà ed uguaglianza, i due cardini su cui è fondata ogni democrazia moderna.

La loro consuetudine di riunirsi per prendere le decisioni che riguardavano la tribù era una forma di democrazia diretta, ma essi non ne ebbero mai coscienza.

Il parlamento moderno è figlio diretto di questa consuetudine, che sopravvisse nelle popolazioni d'Europa. L'uomo europeo, nato dalla mescolanza delle popolazioni latine e germaniche, adattò questa consuetudine alle esigenze di una comunità che diventava sempre più estesa e non poteva più riunirsi direttamente, ma doveva farlo attraverso suoi rappresentanti eletti.

Questa fu l'origine della democrazia parlamentare rappresentativa dei nostri giorni. L'uomo medievale vi aggiunse un nuovo elemento quando decise che il patto consuetudinario, che lo legava al sovrano in un rapporto di diritti e doveri, fosse messo per iscritto.

La Magna Charta, che i baroni inglesi strapparono a Giovanni Senza Terra nel 1215, può essere considerata la madre di tutte le costituzioni che seguirono. Essa sanciva, tra l'altro, il diritto del popolo a ribellarsi al sovrano se questo veniva meno al patto costituzionale sottoscritto.

lunedì 25 agosto 2008

LA CONOSCENZA E’ DEMOCRATICA O ARISTOCRATICA?

Sono stato per parecchio tempo senza scrivere nulla sul mio blog. L’estate mal si concilia con internet. In estate si ha bisogno degli spazi aperti, dove ci si può abbandonare all’ammirazione della bellezza del creato.

Non importa se al mare, in montagna o nella fredda GREEN ALBION (come nel caso mio). L’essenziale è sentirsi rinnovati dentro, come mi sento rinnovato io in questo momento. Sono ritornato alla mia sede di sempre. La mia preferita. In riva al mare.

La spiaggia si sta liberando dell’unico elemento inquinante: l’uomo. Fra poco la spiaggia ridiventerà deserta e ritorneranno i gabbiani. I miei amici di sempre. I cieli incominceranno ad essere cangianti.

Potrò riammirare i tramonti stupendi dell’autunno. Il mare sarà complice. Sarà dinamicamente diverso in ogni istante. Solcato dalle correnti marine, andrà da un blue intenso ad un celestino chiaro. Da un grigio cupo ad un grigio appena accennato.

Ma la sua bellezza più grande è quando si agita fortissimamente. Quando raggiunge forza nove. Con onde che sembrano toccare il cielo e la mia casa (un primo piano con scala esterna) è come se si reggesse sulle palafitte.

A volte, per giorni il mare staziona nel mio giardino e nel mio vialetto d’ingresso. Ma questa forzata “reclusione” non mi disturba. Vivo solo e posso liberamente abbandonarmi a quello che sento dentro. Dimenticandomi di tutto il resto del mondo. Anche se non potrei mai rinunciare al mio unico, insostituibile, legame con esso: internet.

In questi momenti, la musica classica mi è compagna. Brahms, Beethoven, Paganini, Ciaikoskij, e tutti gli altri, mi aiutano a sentirmi in sintonia con lo sconvolgimento degli elementi che avviene all’esterno. Specialmente quando le tempeste marine di pioggia e vento si infrangono sulle vetrate della mia casa.

Perché tengo un blog? Nei miei lunghi anni di studio e di ricerche nel mondo anglosassone, su entrambi i lati dell’Atlantico, ho appreso una verità fondamentale: la conoscenza non partecipata è sterile. Non concorre a produrre altra conoscenza. La mia, tanta o poca che sia, non voglio rimanga solo un mio patrimonio, ma voglio che sia messa a disposizione di tutti. Il senso più alto di un blog è proprio questo: partecipare il proprio sapere ad altri.

Il primo ad intuire che la conoscenza non deve rimanere un fatto di pochi, ma deve diventare un fatto in cui sono coinvolti tutti fu Bacone, nell’Inghilterra del Seicento. Bacone sosteneva che i moderni potevano competere con i giganti dell’antichità classica solo se si impegnavano in una ricerca collettiva.

Su queste sue idee fu fondata la Royal Society, la quale si pose il compito di raccogliere tutta la conoscenza prodotta in ogni angolo della Terra e metterla a disposizione di tutti. Una conoscenza che si voleva democratica come principio.

La Royal Society chiese a tutti i viaggiatori inglesi di mandare alla Society una relazione, più o meno dettagliata, di tutte le nuove conoscenze in cui si imbattevano. In tutti i campi. Da quello economico-produttivo a quello “scientifico”. Da quello del costume a quello politico.

Da questa conoscenza messa a disposizione di tutti nacquero la Rivoluzione Industriale e lo stile di vita inglese. Non c’è nulla nello stile di vita inglese (polo, cricket, ecc.) che non provenga da qualche altro Paese. Ma gli inglesi ebbero il genio di trasformarlo e renderlo inequivocabilmente britannico.

La stessa cosa avvenne nella Rivoluzione Industriale. Il mitico artigiano-inventore inglese si rifaceva a conoscenze acquisite da altri popoli, ma la macchina a vapore è inequivocabilmente britannica, anche se la forza-vapore fu scoperta in Francia.

Anche la tanto osannata AGRICOLTURA ALL’INGLESE è rintracciabile in altri Paesi, ma la sua caratteristica è inequivocabilmente britannica.

Per concludere posso dire che la conoscenza messa a disposizione di tutti democraticamente ha sprigionato le risorse inventive di un popolo che aveva scoperto il profitto come mezzo per arricchirsi.

Nell’Europa continentale la conoscenza non è stata mai democratica. Ha sempre avuto una connotazione aristocratica. L’inventore non era mai un artigiano, ma uno “scienziato” o uno “studioso” amatore, il quale era mosso, non dall’attesa di un profitto, ma dalla gratificazione fine a se stessa della scoperta.

Ancora oggi, mentre nel mondo accademico americano tutta la conoscenza prodotta viene messa on line a disposizione di tutti, nella nostra Italia, la conoscenza prodotta nel mondo accademico non viene partecipata, ma rimane chiusa, gelosamente, nel cassetto di chi l’ha prodotta.

lunedì 16 giugno 2008

IL NEOLIBERISMO CONTRO IL WELFARE STATE:LA DEREGULATION

Il Welfare State, dopo oltre cinquant’anni di esistenza, ha dimostrato i suoi limiti. La ricchezza che esso assorbe è enorme. In Inghilterra esso assorbe oltre il 30 per cento del prodotto nazionale lordo (PiL), in Italia viaggia intorno al 30, così in Germania federale , nel Belgio e in Olanda.

I servizi che esso fornisce sono spesso di pessima qualità e ha sviluppato una macchina burocratica elefantiaca. Alcune aree sono state super garantite, altre sono rimaste a livello di sopravvivenza. Gli sprechi sono enormi. I conti economici dello Stato sono saltati. Lo Stato spende di più di quanto incassa. I deficit accumulati sono paurosi.

L'Italia ha un debito pubblico che viaggia oltre il 100 per cento di tutto quello che riesce a produrre in un anno (PiL). L'inflazione è diventata un male endemico, più che una malattia ricorrente, come lo era nel passato.

Paul Samuelson, premio Nobel per l'economia, ha detto che questo è il prezzo che si paga per la disumanità dell'umanità dell'uomo verso l'uomo: quando un disoccupato percepisce un sussidio, che gli garantisce di che vivere, non è disponibile ad accettare un posto di lavoro non gradito. Preferisce vivere a spese della collettività.

Queste sono disfunzioni reali che hanno bisogno di correttivi per riportare ordine nei conti dello Stato e combattere l'inflazione che penalizza le categorie meno protette.

Alcuni Governi, però, non credono nei correttivi. Essi pensano che lo Stato debba ritornare alle sue funzioni tradizionali del periodo liberista (per questo sono detti neoliberisti). Il loro grido, e la loro politica, è: Deregulation, ritorniamo all'antico!

Smantelliamo tutto: lo Stato ad economia mista, che è stato un fallimento, e il Welfare State, che si è dimostrato ingovernabile.

Le aziende di Stato non hanno svolto il ruolo che ci si attendeva e sono diventate una fonte di sperpero del denaro pubblico? Allora esse vanno restituite ai privati e riportate nella logica dell'economia di mercato.

Lo Stato che provvede a tutti dalla culla alla tomba è un divoratore insaziabile di ricchezza? Allora esso deve finire, eliminando il superfluo e riportando alla logica del mercato quel che oggi è dominato dalla regulation amministrativa.

Le provvidenze dello Stato vanno riservate solo a quelle categorie di cittadini che si trovano al disotto della soglia di reddito definita come soglia della povertà.

La politica della deregulation è stata adottata, per prima, dagli Stati Uniti di Reagan e dall'Inghilterra della Thatcher. Quest'ultima si era spinta molto avanti nello smantellamento dello Stato ad economia mista e si preparava a smantellare quello assistenziale.

E su questa strada si stanno muovendo tutti i governi europei, più o meno timidamente. Compreso quello italiano. che ha già venduto una buona parte dei gioielli di famiglia ed è sulla strada per correggere lo Stato assistenziale (welfate state).

domenica 8 giugno 2008

LO STATO DIVENTA AMICO DELL’UOMO: IL WELFARE STATE

Il primo intervento dello Stato nell'economia era stato dettato dall'esigenza di creare un equilibrio stabile nel sistema economico ed evitare, così, i guasti che il sistema capitalista, se lasciato a se stesso, produceva periodicamente. Questo fu il periodo delle grandi nazionalizzazioni nel settore dei servizi.

Successivamente, questo intervento si estese fino ad interessare direttamente la grande industria: da quella di base a quella manifatturiera. Così, accanto ad un settore privato dell'economia, nacque e si sviluppò, a partire dagli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale, un settore pubblico che, secondo Aneurin Bevan, ministro del primo governo laburista inglese del secondo dopoguerra, doveva assumere un ruolo strategico nella politica del governo.

Secondo il socialista Bevan, le nazionalizzazioni dei settori strategici della grande industria e dei servizi dovevano costituire le premesse indispensabili per la realizzazione di una politica di grandi riforme sociali in senso egualitario e garantista.

In poco più di un quarto di secolo, lo Stato inglese nazionalizzò il 16 per cento dell'industria nazionale. Gli altri Stati europei lo seguirono a ruota. La Francia con il 23 per cento. L'Italia, con il suo settore nazionalizzato e quello a partecipazione statale, il 20 per cento, la Germania il 14 e iì Benelux il 10.

Su queste premesse, il governo socialista dì Clement Attlee (19451951) impostò la sua politica per la realizzazione di un piano assistenziale, che fu elaborato, in piena seconda guerra mondiale (1942) e su incarico di Winston Churchill, dal liberale William Beveridge.

Il piano Beveridge sì basava sull'impegno da parte dello Stato di GARANTIRE L’ASSISTENZA AL CITTADINO DALLA CULLA ALLA TOMBA (A questo tipo di Stato, più tardi, verranno date varie definizioni: Welfare State, Stato assistenziale, Stato del benessere, Stato garantista, ecc), senza distinzioni sociali.

Al cittadino, come membro di diritto dello Stato, veniva garantito:
1) un minimo dì sicurezza economica;
2) tutta l'assistenza sanitaria;
3) una pensione per la vecchiaia o in caso di inabilità;
4) e - soprattutto – veniva salvaguardata la sua dignità umana: quello che prima riceveva, in caso di bisogno, come carità pubblica o privata, ora gli veniva attribuito come diritto sin dalla nascita, sia che nascesse ricco o povero.

Era una concezione nuova e rivoluzionaria dello Stato. Allo sfruttamento dell'uomo sull'uomo del liberismo puro, si sostituiva la concezione dell'umanità dell'uomo verso l'uomo. Allo Stato gendarme, così caro ad Adam Smith, si sostituiva lo Stato-amico che liberava l'uomo dalla paura del bisogno.

L'esperienza storica, tuttavia, ha dimostrato che il settore pubblico dell'economia non ha svolto quel ruolo strategico che era nei pensieri dei suoi ideatori. Col passare del tempo, esso era diventato un cronicario delle industrie private decotte, che venivano addossate alla collettività per garantire i livelli occupazionali.

Esso non creava ricchezza, ma la distruggeva. I suoi deficit erano diventati paurosi e riesciva a sopravvivere solo grazie ai costanti finanziamenti dello Stato. La sua stessa esistenza, come industria assistita, stravolgeva le regole dell'economia di mercato, secondo le quali ogni impresa ha un proprio ciclo di vita e riesce a restare sul mercato (e quindi a vivere) solo se è competitiva e produce utili.

Il settore pubblico, invece, era diventato immortale e come tale era al di sopra e al di fuori delle leggi del mercato. Non produceva più per il mercato, ma produceva solo per perpetuare se stesso a spese della collettività.

Il fallimento delle nazionalizzazioni venne ampiamente riconosciuto da tutti, ed i partiti di sinistra, che prima ne facevano dei cavalli di battaglia, le hanno cancellate dai loro programmi.

mercoledì 4 giugno 2008

PARLIAMONE: LO STATO CONTRO I GUASTI DEL LAISSER FAIRE

Per quasi tutto il periodo della RIVOLUZIONE INDUSTRIALE (due secoli circa), la classe operaia, ancora non organizzata, pagò un costo tremendo. L’anello debole di questa rivoluzione, che permise l’immenso accumulo di capitale su cui la società moderna fu fondata, era l’operaio non organizzato.

La CONTRATTAZIONE COLLETTIVA non esisteva. E non esisterà ancora per 150 anni. La contrattazione avveniva uno contro uno. Datore di lavoro contro operaio singolo. Era una contrattazione iniqua. La paga che il datore di lavoro era disposto a concedere era quella misera somma appena sufficiente per SOPRAVVIVERE E RIPRODURSI.

Oltre questa paga, l’operaio non aveva alcun diritto. Nè contro le malattie. Nè contro gli incidenti sul lavoro. Nè per la vecchiaia. Era la solideriata familiare che garantiva il funzionamento del meccanismo. L’adulto manteneva il bambino fino ai sette otto anni. Poi questo doveva andare a guadagnarsi un tozzo di pane col sudore della sua fronte e doveva mantenere i propri vecchi negli ultimi anni della loro vita, quando non erano più in grado di lavoro.

Negli anni di crisi economica generalizzata, la scure dei licenziamenti gettava tutti sul lastrico. Nella miseria più nera per tutta la famiglia.

All'inizio del XX secolo, le crisi economiche, che nel frattempo erano diventate sempre più frequenti e sempre più acute, convinsero lo Stato che il sistema liberista, lasciato a se stesso, era incapace di assicurare alla nazione un progresso economico continuo ed equilibrato, come non era stato capace di garantire alla nazione un armonico sviluppo sociale e civile.

Ci si rese conto che se si voleva assicurare alla nazione un crescente sviluppo economico e abolire o, quanto meno, attutire le catastrofiche conseguenze delle depressioni economiche, lo Stato doveva abbandonare la sua tradizionale neutralità ed intervenire anche nel campo dell'economia.

Dapprima questo intervento fu frammentario ed occasionale. Esso si risolveva in «una serie di misure economiche isolate, non coordinate e senza rapporto fra di loro, intese a migliorare, in determinati periodi, le condizioni dei produttori di grano, degli allevatori di bestiame, della industria tessile, di qualsiasi altro gruppo economico.

Poteva essere adottato per mantenere il livello degli utili, dei prezzi, dei salari o delle condizioni di lavoro nella particolare industria che formava oggetto di tali misure, oppure poteva essere principalmente inteso a migliorare il gettito delle imposte.

Poteva anche avere come scopo la conservazione delle risorse minerarie, idriche o forestali; oppure servire ad assistere una comunità o una zona in particolari condizioni di disagio economico; soprattutto poteva spesso rappresentare il tentativo di attenuare gli effetti di una depressione ciclica o strutturale, in gestazione o in atto» (LAUTERBACH).

Ciò che c'era di positivo in queste misure è che esse riuscivano a tappare, bene o male, le falle che continuamente si aprivano nella grande barca dell'economia, ma non riuscivano ad impedire che esse si aprissero, e ciò era dovuto al fatto che, più che misure preventive, esse erano misure correttive di squilibri che si venivano a creare in alcuni settori dell'economia.

Esse si erano dimostrate efficaci nella lotta contro le grandi depressioni o nel risollevare un settore dell'economia da uno stato di crisi, ma del tutto inefficaci per garantire al paese un alto sviluppo economico e sociale.

Fu proprio per colmare questa insufficienza che lo Stato intensificò il suo intervento nel mondo dell'economia con una azione più organica, più coordinata, più continua e, soprattutto, con un'azione programmata, intesa ad utilizzare razionalmente le risorse del Paese e ad aggredire i problemi economici e sociali con una visione globale ed unitaria, distribuendo le risorse secondo una scala di priorità, in modo da assicurare l'armonico sviluppo di tutti i settori della società.

domenica 18 maggio 2008

ALLA RICERCA DI UNA LINGUA PASSEPARTOUT PER UN MONDO GLOBALIZZATO: ESPERANTO O INGLESE?

Dopo la caduta dell’Impero Romano, l’Europa Occidentale collassò su se stessa. Anche se nella forma una parvenza di Stato non scomparve mai completamente, tutto divenne insicuro e la gente aveva paura. Era un mondo aperto che si frantumava e si rinchiudeva in piccole comunità che potevano essere difese meglio.
Il piccolo divenne bello. Anche l’unità della lingua latina si frantumò ed incominciarono a formarsi le lingue nazionali. A parte il mondo germanico, dove il latino era poco conosciuto e la lingua germanica ebbe la sua evoluzione naturale fino ai giorni nostri, negli ex territori dell’Impero Romano si formarono le grandi lingua nazionali: lo spagnolo, il francese e l’italiano.
A livello della popolazione minuta, si formarono delle barriere linguistiche basate su aree geografiche, che vennero prese come segni distintivi dello Stato nazionale.
Quando nel basso medioevo le comunità medievali incominciarono ad aprirsi con la ripresa del commercio, si sentì fortemente il bisogno di una lingua passepartout, che consentisse le libera circolazione delle persone e delle idee negli ex territori dell’Impero Romano.
Il latino, che non era mai scomparso, ma era rimasto come lingua della cultura e delle persone colte, riprese il suo cammino come lingua passepartout (internazionale) della nuova Europa che nasceva e lo rimase fino a tutta il diciassettesimo secolo.
Nel diciottesimo secolo fu sostituito dalla lingua del nuovo astro sorgente in Europa: la Francia, che era diventata una potenza di primo rango a livello mondiale, anche se aveva una grande rivale: l’Inghilterra. Ma l’inglese non si elevò mai a lingua passepartout, almeno fino al ventesimo secolo.
Il francese, invece, si impose come lingua passepartout (internazionale) soprattutto nelle relazioni internazionali (lingua delle diplomazie) e nella cultura. Era una lingua dolce, poetica, strutturalmente completa e di facile apprendimento.
Il suo ruolo di lingua passepartout incominciò a vacillare agli inizi del ventesimo secolo, quando sulla scena mondiale apparve una nuova grande potenza: gli Stati Uniti d’America, di lingua inglese, che venne a dare man forte a questi Stati europei che combattevano contro l’impero austro-ungarico nella Prima Guerra Mondiale.
Come lingua passepartout, il francese ebbe la sua spallata definitiva nella Secondo Guerra Mondiale, quando, ancora una volta, gli Stati Uniti d’America intervennero per salvare le democrazie libere d’Europa dal tracollo finale da parte della Germania di Hitler.
Da questo momento, la lingua passepartout divenne l’inglese. Quello che, in due secoli di storia, non era riuscito all’inglese d’Inghilterra riuscì all’inglese americano.
Alcuni studiosi non accettano questo verdetto come definitivo e stanno studiando l’elaborazione a tavolino di una nuova lingua passepartout: l’ESPERANTO. Ma è un tentativo destinato al fallimento. Le lingue non si costruiscono a tavolino, ma sono degli organismi che hanno una vita propria e conoscono le fasi di tutti gli organismi: crescita, maturità, decadenza.
Da studente universitario, in visita in un scuola americana, alla domanda di un’alunna se la lingua inglese era destinata a lunga vita come lingua passepartout, risposi che dipendeva dal successo o insuccesso dell’U.R.S.S. (Unione Repubbliche Socialiste Sovietiche)
A quell’epoca, anni 60 del secolo scorso, questa nazione incuteva timore. Aveva già imposto la sua influenza su un terzo del globo. Sembrava che il suo tentativo potesse avere successo. Ma, fortunatamente, la storia incomincio a girare diversamente non appena questa nazione mostrò il suo vero volto.

sabato 10 maggio 2008

IL CROGIOLO CULTURALE DELL’EUROPA DI OGGI: LE UNIVERSITA'

Le università furono la risposta dell'uomo medievale al suo bisogno di cultura. Le scuole che operavano presso le cattedrali non rispondevano più alle esigenze degli spiriti nuovi del mondo laico, che si avvicinavano ad un'attività che era sempre rimasta chiusa nei monasteri e destinata ai chierici.

La conoscenza che questi spiriti nuovi ricercavano non era quella del trivio e del quadrivio, ma era una conoscenza più specialistica che consentisse l'approfondimento di alcune tematiche.

In Italia queste tematiche riguardavano, principalmente, il diritto e la medicina. Oltr'Alpi avevano un carattere più spiccatamente teologico.

Le università medievali promossero e garantirono la circolazione delle idee in un'Europa, che manteneva la sua unità culturale e linguistica. Le barriere nazionali non erano ancora sorte e lo studioso sentiva di appartenere ad una stessa comunità di una vasta area geografica, che aveva le stesse tradizioni e parlava la stessa lingua (latino).

Questa libertà di movimento creò gli itineranti della cultura che si trovavano a loro agio in tutti gli angoli d'Europa: a Bologna come a Parigi; a Salerno come a Oxford.

La libertà di movimento era accompagnata dalla libertà di autogestione. Le università, in effetti, erano libere associazioni di studenti che assumevano dei docenti o erano libere associazioni di docenti intorno ai quali si raggruppavano gli studenti.

Il riconoscimento ufficiale del papato o dell'impero come studium generale (universitas) seguiva sempre dopo la nascita, mai prima.

domenica 4 maggio 2008

HOMO HOMINI LUPUS: IL LAISSER FAIRE

Nel mondo ad economia globalizzata, in cui viviamo oggi, le funzioni storiche dello Stato devono essere ripensate. Quelle svolte nel passato (liberismo, Stato ad economia mista e ad economia pianificata (nei paesi dell’ex socialismo reale) sono diventate materia per gli storici.

Nel mondo della globalizzazione c’è bisogno di un intervento più complesso per garantire un equilibrio più corretto tra tutte le forze in campo: lavoro, capitale e forze sociali.

Oggi vorrei occuparmi di quella forma di Stato che è stata in auge dal 1750 al 1908 circa, cioè lo Stato liberista. Dello Stato ad economia mista e di quello ad economia pianificata (Russia sovietica) me ne occuperò nei prossimi post.

Il liberismo (laisser faire), che imperò per tutto il periodo della RIVOLUZIONE INDUSTRIALE, intendeva lo Stato come gendarme, come guardiano della libertà di chi aveva un interesse materiale reale nel Paese, cioè la classe dei proprietari. Si presupponeva, ed era vero nella realtà, che l'opulenza dei ricchi suscitasse l'indignazione dei poveri che. spesso, spinti dal bisogno, invadevano la proprietà dei ricchi. Il ricco poteva dormire i suoi sonni tranquillo solo sotto la protezione dello Stato-gendarme.

Le altre funzione dello Stato erano limitate a tutte quelle attività che, per il loro carattere collettivo, sociale ed umanitario, restavano fuori del campo di azione dell'iniziativa privata, basata principalmente sul PROFITTO.

La fondazione di ospedali, la costruzione di strade, di ponti, ecc., erano tutte cose che non avrebbero potuto offrire un profitto all'imprenditore privato e quindi dovevano essere costruite e fondate col denaro pubblico. Naturalmente, lo Stato poteva imporre delle tasse che avrebbero dovuto essere proporzionali alla ricchezza, ma che in realtà venivano pagate soltanto dalle classi più povere.

Al di fuori di questa limitatissima sfera, lo Stato non poteva operare. Anzi, esso doveva lasciare l'individuo libero di perseguire il suo proprio interesse, specialmente nel campo economico «poiché ogni individuo cercando... di promuovere soltanto il suo particolare guadagno è guidato da una MANO INVISIBILE a promuovere... quello della società più efficacemente di quanto egli intenda veramente promuoverlo»( Adam Smith).

In breve, lo Stato doveva garantire al cittadino tutte le libertà civili (libertà di parola, libertà di stampa, libertà religiosa, ecc.), ma non poteva e non doveva intervenire, in nessuno modo, per concedere al cittadino non proprietario quella che Franklin D. Rooselvelt, Presidente degli Stati Uniti d'America, definì una delle quattro libertà fondamentali dell’uomo: la LIBERTA’ DAL BISOGNO.

Il benessere dei cittadini era appannaggio esclusivo della "MANO INVISIBILE" che, attraverso gli egoismi particolari, avrebbe promosso il benessere collettivo.

In questo consisteva il principio del laisser faire, che consentì un tremendo accumulo di capitale attraverso il selvaggio sfruttamento dei lavoratori: 1) libera concorrenza; 2) iniziativa privata; 3) individualismo. Ed era «basato sulla fede del costante ed automatico adattamento tra domanda ed offerta, tra consumi ed investimento, tra salari ed impieghi.

Nella realtà, invece, la vita economica, durante il laisser faire, era caratterizzata dall'alternarsi di fasi di prosperità e di depressioni (i cosiddetti cicli economici).

Quando la depressione economica si imponeva trascinava con sé salari e profitti, causando una disoccupazione massiccia e una miseria generale. L'ingranaggio del mondo della produzione si bloccava e cessava di produrre.

I lavoratori si trovavano d'improvviso disoccupati ed esposti alla più nera miseria. E la loro condizione era tanto più triste in quanto non esisteva alcuna regolamentazione sociale che li garantisse dalla conseguenza della disoccupazione e dalla fame.


Furono, appunto. le gravi conseguenze di queste depressioni ricorrenti, le quali facevano piombare le nazioni in uno stato di momentanea barbarie, che incoraggiarono l'intervento dello Stato nel mondo dell'economia.

Tuttavia, non era la prima volta che lo Stato interveniva per correggere le anomalie del sistema liberista. Il suo primo intervento lo Stato lo operò negli stessi anni ruggenti del laisser faire, quando cercò, con una legislazione illuminata, di correggere gli aspetti più disumani della società liberista, basata sullo SFRUTTAMENTO DELL’UOMO DA PARTE DELL’UOMO.

Nel mondo liberista, ogni comunità nazionale era divisa in DUE GRANDI CLASSI CONTRAPPOSTE: i RICCHI e i POVERI. «Con il loro denaro i ricchi potevano comprarsi le medicine per il loro corpo e l'istruzione per le loro menti. Essi potevano abitare in case grandi e graziose.

Il povero non poteva fare nulla di tutto ciò. Egli era alla mercè del datore di lavoro, che gli corrispondeva un salario che bastava appena per mantenersi in vita e riprodursi (sussistenza).

Per il ricco, né la disoccupazione, né la vecchiaia rappresentavano una crìsì finanziaria perché il reddito del capitale che avevano accumulato continuava a scorrere. Per il povero, il pensiero di perdere la sua fonte di guadagno a causa della sopraggiunta vecchiaia o la perdita del posto di lavoro costituiva un terrore che lo ossessionava quotidianamente.

La classe lavoratrice, per la quale il prezzo dell'istruzione privata, dell'assistenza medica privata, dell'abitazione e dell'assicurazione privata era proibitivo, poteva ottenere questi servizi da una fonte soltanto, cioè da una fonte pubblica» (L. LIPSON).

Lo Stato incominciò ad approvare una serie di leggi (legislazione sociale), in un arco di tempo più o meno lungo, che mirava, appunto, a sollevare il lavoratore da quello stato di abbrutimento e di sfruttamento in cui lo aveva spinto la giungla della RIVOLUZIONE INDUSTRIALE e a garantirgli un tenore di vita più elevato della semplice sussistenza e, soprattutto, a garantirgli condizioni di vita più umane.

Si incominciarono ad approvare leggi che proibivano l'impiego di fanciulli nelle fabbriche e nelle miniere e riducevano la giornata lavorativa degli adulti da 18 a 16, poi a 12 ore per arrivare, infine, alle 8 ore giornaliere dei nostri giorni.

Si intervenne sulla CONTRATTAZIONE SALARIALE tra il datore di lavoro e il lavoratore, fissando le tariffe minime di salario, disponendo che fossero assicurati al lavoratore migliori condizioni igieniche negli ambienti di lavoro, una maggiore salvaguardia contro gli infortuni, contro le malattie, contro l'invalidità, la vecchiaia e contro la disoccupazione.

Si intervenne anche nel campo dell'istruzione, che era quasi esclusivamente nelle mani degli ordini religiosi, le cui scuole, per ìl loro carattere privato, erano frequentate da persone che potevano pagare, creando, anche qui, una spaccatura profonda tra una piccola minoranza istruita e privilegiata e una massa amorfa di reietti analfabeti. Si istituì, infine, la scuola di Stato.

Sebbene l'intervento dello Stato, in questo settore così fondamentale al progresso civile di ogni nazione, si limitò alla scuola elementare, esso ebbe il grande merito di avere aperto le porte dell'istruzione alle grandi masse e di averla resa obbligatoria e gratuita.

sabato 26 aprile 2008

LE IDEE CHE CONTANO: IL CONCETTO DI GERARCHIA

Il concetto di gerarchia nasce nell'ambito della chiesa per soddisfare una duplice esigenza: fissare un rapporto ordinato all'interno del magistero della chiesa, che appartiene solo ai vertici (scala gerarchica: vescovi, cardinali, papa), e dare una struttura organizzativa all'amministrazione della chiesa con responsabilità subordinate che vanno dal basso verso l'alto.

Nel primo caso, il clero sottostante appartiene alla chiesa che ascolta l'insegnamento (magistero) della gerarchia (vescovi, cardinali, papa), la cui autorità era ed è indiscutibile.

Nel secondo caso i gradini più bassi sono responsabili (subordinati) verso il loro diretto superiore in una catena gerarchica, che termina solo al vertice (papa).

Tutti gli Stati hanno fatto proprio quest'ultimo tipo di organizzazione gerarchica e l'hanno applicata sia nell' amministrazione civile che in quella militare. Le persone e gli uffici sono ordinati secondo un rapporto di subordinazione verso l'alto.

Senza questa organizzazione uno Stato ordinato non potrebbe esistere.

venerdì 18 aprile 2008

UNA GIUSTIZIA PER I POPOLI VINTI: IL CASO DEI BRUZI

Il PECCATO ORIGINALE DEI BRUZI fu il loro smisurato amore per la LIBERTA’. Alla libertà sacrificarono tutto. Tranne la dignità. Che seppero conservare anche quando furono ridotti a Servi dai Romani..

Roma fu dura con loro. Questa SUPERPOTENZA dell’antichità classica non tollerò che questo popolo INDOMITO, FIERO GUERRIERO, TENACE COME NESSUNO, INFLESSIBILE, CAPACE DI RISORSE INAUDITE non accettasse la sua supremazia.

Per tre volte questo popolo si ribellò alla potenza romana per riconquistare la sua libertà. E per tre volte fu vinto. Lo fece con Pirro, re dell'Epiro, che combatteva contro Roma sul suolo italiano. Lo fece quando si unì alle schiere di Annibale contro Roma nella seconda guerra punica. E, infine, lo fece quando giocò la carta dello schiavo SPARTACO, che, per un attimo, aveva fatto tremare Roma.

Roma non seppe essere magnanima nella vittoria. Non seppe capire le motivazioni profonde dei Bruzi. E rese questo popolo SERVO. Sudditi senza diritti. La regione dei Bruzi fu cancellata come entità politica autonoma e divenne una colonia romana.

I rudi e forti guerrieri Bruzi furono obbligati a svolgere, come ausiliari, i lavori “sporchi” all’interno dell’esercito romano (le famose “legioni”). Uno di questi, il più noto e il più odioso, fu quello di far costruire loro la croce di Cristo.

Roma si sentì soddisfatta solo quando espresse il suo giudizio storico sui Bruzi, che definì BANDITI DI STRADA, TESTE DURE, IDIOTI, INFIDI.

E questo giudizio storico fu tramandato ai posteri. Nessuno storico, fino ad oggi, ha osato riscriverlo per fare una più giusta lettura dei fatti storici. Da giovani, noi “bruzi” abbiamo vissuto questa storia con vergogna. Usavamo un sillogismo per nasconderla e per assolverci come individui.

Ci dicevamo: “L’UOMO E’ IL PRODOTTO DELLA STORIA… NOI ABBIAMO UNA STORIA CHE FA SCHIFO…”. Ora non lo sottoscriverei più questo sillogismo. E’ FALSO. E’ basato sulla verità storica dei Romani, che si accanirono contro questo popolo che aveva osato opporsi al loro dominio per ben tre volte.

Nessuno dei popoli italici l’aveva fatto. Questi si integrarono nella realtà romana e fecero anche carriera nell’esercito e nella burocrazia romana. I Bruzi non potevano accettare questa condizione.

Farlo significava rinunciare alla propria IDENTITA’ per assumere quella romana, come era accaduto per gli altri popoli italici. Per loro, questa IDENTITA’ era una conquista ottenuta di recente sul campo di battaglia. Ed era il loro bene più grande a cui non potevano e non volevano rinunciare.

I Bruzi erano stati servi-pastori dei Lucani da tempi immemorabili. Ma nel IV secolo a.c. (si dice il 356 a.c.) riunirono i loro gruppi sparpagliati sul territorio dei monti silani e fronteggiarono i Lucani sul campo di battaglia.

Erano fieri di se stessi. Erano consapevoli del loro valore come guerrieri. Ed erano fortemente determinati a vincere per liberarsi del giogo della servitù ed assaporare la dolcezza della LIBERTA’, che non avevano mai conosciuto.

Mitica fu la battaglia per conquistare la ROCCA BRETICA sul colle Pancrazio a Cosenza, difesa da 600 mercenari africani di Dionisio alleato dei Lucani. I Bruzi erano guidati da una donna, che, col suo impeto, riuscì a portare i suoi alla vittoria finale.

In meno di 80 anni come uomini liberi, riuscirono ad organizzarsi in una forte CONFEDERAZIONE. Divenendo una potenza locale che fece delle conquiste territoriali di una certa importanza, sia a Nord che a Sud del loro baricentro, che era la provincia di Cosenza.

Quando i Romani li sottomisero nel 270 a.c., i Bruzi erano una piccola potenza in ascesa con una propria civiltà, anche se ancora in forma embrionale. Ecco perché continuarono a ribellarsi a Roma. Volevano conservare il loro diritto a svilupparsi come civiltà autonoma.

Ma fu una lotta impari. Il coraggio e il valore, da soli, non potevano bastare contro una delle più potenti macchine da guerra che la storia abbia mai conosciuto.

La storia scritta dai romani vincitori non poteva tener conto delle ragioni dei Bruzi vinti.
E GUAI AI POPOLI VINTI CHE NON SANNO RISCRIVERE LA PROPRIA STORIA!

Oggi, quel sillogismo della mia gioventù, lo riscriverei in questo modo: “L’UOMO E’ IL PRODOTTO DELLA STORIA… LA NOSTRA E’ LA STORIA DI UN POPOLO DI EROI”… e ne sarei fiero ed orgoglioso. Fiero ed orgoglioso di essere un bruzio.

Il mio progetto: “Per rivitalizzare il centro storico di Cosenza”, si propone di raffigurare questa storia dei bruzi, in cinque grandi murales, per raggiungere due obiettivi:
1)GRIDARE QUESTA VERITA’ STORICA AL MONDO
2)DARE A TUTI I CALABRESI, MA, SOPRATTUTTO, ALLE NUOVE GENERAZIONI UNA NUOVA
COSCIENZA DELLE PROPRIE RADICI.

ANCHE SE IL PESSIMISMO DELLA RAGIONE MI DICE CHE IL CENTRO STORICO DI COSENZA SARA’ CONDANNATO DALLA MIOPIA CULTURALE E POLITICA DELLA GIUNTA PERUGINI.

giovedì 27 marzo 2008

UN PROGETTO PER SALVARE IL CENTRO STORICO DI COSENZA

Il tessuto sociale del centro storico si è completamente sfilacciato e la struttura urbana sta subendo un degrado inarrestabile. Il problema di un suo recupero diventa sempre più urgente se si vuole evitare il suo degrado totale.

Ma pensare di riportarlo all'antica vitalità ricorrendo a provvedimenti tampone o palliativi significa non rendersi conto che il problema è la qualità della vita che quest' area cittadina riesce a garantire ai suoi residenti. Se la qualità della vita è povera, chi se lo può consentire fugge. Questo è stato uno dei più grandi errori degli ultimi decenni.

Nessuno può arrestare o frenare le linee di tendenza spontanee di una società. Questo è stato vero per le società del passato. Questo è vero per le società di oggi. In queste condizioni, se non si ricorre ad un intervento che riqualifichi l'intera area, destinandola ad altro uso, si andrà incontro ad un totale degrado del tessuto urbano e del centro storico non rimarranno che i ruderi.

Le esperienze di altri stati (Francia, Inghilterra e Stati Uniti) ci mostrano che, quando il degrado del tessuto urbano di una area cittadina si è innescato per motivi che riguardano l'offerta della qualità della vita, è inutile pensare al suo recupero guardando al passato per ripristinare le condizioni esistenti prima.

Quelle condizioni non sono più ricreabili a meno che non si ricorra al tritolo e si ricrei un nuovo tessuto urbano. Ma, se si vuole conservare l'antico tessuto urbano, è quello cosentino va conservato non solo per la sua storicità, ma anche per la sua indiscussa bellezza urbanistica, bisogna pensare in termini alternativi alla residenzialità.

La RICONVERSIONE FUNZIONALE è la sola strada che consente di conservare intatto il tessuto urbano storico e nello stesso tempo garantisce una sua rivitalizzazione attraverso l'offerta qualificata di attività TURISTICHE-RICREATIVE-CULTURALI e del TEMPO LIBERO, che offrono alla città intera grandi possibilità di sviluppo economico.

Si deve puntare su questa INDUSTRIA ECOLOGICA, come hanno fatto Parigi, Londra e Atlantic City, le cui aree depresse sono diventate fiorenti centri dell'INDUSTRIA DEL TEMPO LIBERO, CREANDO 0CCUPAZIONE e dove il cittadino può trovare una risposta ai suoi bisogni di attività culturali-ricreative.

Cosenza deve percorrere la stessa strada. Il suo centro storico deve essere riconvertito all'industria del tempo libero. Sfruttando la sua esperienza storica bimillenaria, il centro storico deve diventare la PIU’ GROSSA ATTRAZIONE TURISTICA-CULTURALE-RICREATIVA DELLA CALABRIA per essere inserita nei grossi flussi turistici europei.

Affinché il progetto possa veramente decollare, si devono realizzare le seguenti INFRASTRUTTURE PORTANTI:

1) un MUSEO STORICO ALL'APERTO della secolare STORIA cosentina attraverso MURALES STORICI GIGANTI (2X3m. ALMENO CINQUE PER OGNI SEZIONE) RAFFIGURANTI SCENE SIGNIFICATIVE DEL PASSAGGIO DI QUEL DATO POPOLO SUL SUOLO COSENTINO… utilizzando, per aree omogenee, tutti i muri disponibili del centro storico;

La fattura dei MURALES dovrà essere affidata ad ARTISTI DI FAMA,
NAZIONALI ED ESTERI (1 inglese, 1 francese, 1 tedesco 1 spagnolo e 3
italiani) CHE, CON LE LORO FIRME, garantiscano una RISONANZA NAZIONALE
ed ESTERA.

questo MUSEO STORICO ALL’APERTO deve comprendere sette aree:

1) LA COSENZA BRUZIA E ROMANA
2) LA COSENZA NORMANNA
3) LA COSENZA SVEVA
4) LA COSENZA ANGIOINA
5) LA COSENZA SPAGNOLA
6) LA COSENZA BORBONICA (napoletana)
7) LA COSENZA RISORGIMENTALE

I MURALES STORICI si porranno due obiettivi:

a) porsi come FORTE MOMENTO DI RICHIAMO DEL TURISMO NAZIONALE ED ESTERO
nelle direzioni di: Inghilterra (Normanni), Germania (Svevi), Francia
(Normanni e Angioini) e Spagna.

b) far conoscere la storia della città alle nuove generazioni per
formare nelle coscienze un radicato processo di identificazione
attraverso una più precisa conoscenza delle proprie radici;

2) una MINI SALA PER CINEMA D’ESSAI

3) una SALA CONCERTI di dimensione intermedia che si prefigga
due finalità:

a)offrire al pubblico performances di alta qualità richiamando grossi
artisti che possano rappresentare dei modelli anche per i diplomandi
del conservatorio casentino

b)dare la possibilità ai giovani talenti che escono dal conservatorio
di fare le loro prime esperienze pubbliche;

4) predisporre un'area per la realizzazione di un MERCATO
DELLE PULCI, specializzato nel SETTORE DEGLI INTROVABILI E DEL PARTICOLARE.



All'iniziativa privata dovrà essere lasciata la più ampia libertà, sempre nel rispetto del progetto generale, per la realizzazione di locali che riproducano la GASTRONOMIA E LA CULTURA dell’AREA TEMATICA prescelta (angolo spagnolo, angolo tedesco, angolo francese, angolo inglese-normanno, angolo napoletano, angolo bruzio dei vecchi sapori)

L'AREA COSI’ ATTREZZATA DEVE DIVENIRE UNA POTENTE FONTE DI RICHIAMO, non solo per la popolazione che ricade nel bacino di utenza dell'area metropolitana cosentina, ma SOPRATTUTTO, del FLUSSO TURISTICO NAZIONALE ED ESTERO.

Per il progetto nella sua interezza si veda www.franco-felicetti.it menu:fuori sacco

domenica 23 marzo 2008

LA TIRANNIA DELL’IPSE DIXIT: L’AUTORITA' COME AUTORITA' CULTURALI SOVERCHIANTI

Le idee hanno un peso. E questo peso dipende da chi le esprime. Se le esprime una persona che conta poco, anche se dice delle grossissime verità, le idee hanno un peso leggerissimo. Nessuno è disposto a prenderle in considerazioni.

Ma se vengono espresse da uno che conta, anche se dice le più grosse sciocchezze di questo mondo, pesano moltissimo. E su di esse si apre un dibattito che coinvolge tutti coloro che non vogliono perdere l’occasione per mettersi in mostra.

Ricordo ancora che, nella mia prima giovinezza, avevo capito questa semplice verità e volevo diventare uno scrittore di fama per prendermi il gusto di dire le più grosse banalità ed essere preso in considerazione da tutti color che sanno.

Poi ho cambiato idea. Anche perché ho scoperto che a me la letteratura, anche se la studiavo ed ero un divoratore di libri, non interessava un fico secco. Era una mia aspirazione, ma non avevo nessuna vocazione per essa. A me interessava… e interessa… il campo storico-filosofico-scientifico.

Poi ho scoperto che il peso delle idee non l’avevo inventato io. Era una “querrelle” che veniva da lontano. Lo avevano inventato nel medioevo per giustificare il regresso nei livelli di intelligenza che si ebbe in quell’epoca.

L'uomo medievale aveva coscienza della propria inferiorità rispetto agli antichi. Alcuino (l'uomo più colto dell'alto medioevo) affermava (IX secolo) che l'uomo dei suoi tempi era un OMUNCOLO rispetto ai giganti del mondo classico.

Egli sosteneva, non a torto, che sarebbe stato impossibile competere con loro. In effetti, i livelli di intelligenza erano notevolmente regrediti rispetto al mondo classico. La logica, una delle più grandi conquiste dei classici, era quasi completamente assente nell'epoca di Alcuino.

Quello che si privilegiava in quest'epoca non era la ragione, che allontanava l'uomo da Dio, ma l'intuizione, che conduceva alla vera fede. Nelle controversie, questo OMUNCOLO medievale non ragionava con la propria testa, ma faceva ricorso alle citazioni tratte dagli autori classici o ai padri dello chiesa, che erano autorità riconosciute.

Aristotele divenne l'autorità suprema, "il maestro di color che sanno", e perciò le sue verità non potevano essere messe in discussione. L'ipse dixit (l'ha detto lui) divenne un ostacolo alla crescita intellettuale dell'uomo, ma nessuno osò ribellarsi alla sua autorità. Perfino Copernico tenne la teoria eliocentrica chiusa nel cassetto per tanti anni perchè non osava sfidare questa soverchiante autorità… che la pensava diversamente.

La rottura totale con le autorità culturali avverrà nel XVII secolo (Rivoluzione Scientifica), quando uomini come Galileo, Cartesio e Newton (e tanti altri che non è possibile citare) fecero fare un salto di qualità all'intelligenza dell'uomo e lo introdussero nel mondo della scienza esatta.

Spariva l'uomo antico-medievale, che ragionava partendo da verità intuite, e subentrava l'uomo moderno, che ragionava partendo da verità certe, scoperte attraverso il metodo scientifico sperimentale.

Ma questa liberazione non annullò il peso delle idee totalmente. Esiste ancora, anche se non in modo soverchiante come ai tempi dell’IPSE DIXIT. Ora si è trasformato in un POTERE DI INFLUENZA. Le idee di quelli che contano hanno un POTERE D’INFLUENZA MAGGIORE. Ma possono essere contraddette.