giovedì 25 marzo 2010

FRANCO FELICETTI’S STORY (30)

VIGLIACCO, MAI!!!!!!

L’esperienza alla Fausto Gullo di Via Popilia fece di me un preside stimato e amato da tutti i genitori, ma non da tutti i docenti. Chi non credeva nell’impegno di educatore non poteva amarmi. Poteva avere solo risentimenti contro di me. Ed era giusto che andasse a trovare fortuna altrove.

Il mio trasferimento alla Scuola Media di Via Popilia, non ancora Fausto Gullo, non avvenne per caso. Fu voluto da me con molta determinazione. La scuola era allo sbando. La delinquenza se ne era impadronita. Quella giovanile ne aveva fatto il suo terreno di spaccio. Quella dei capibastoni dettava la sua legge all’interno delle classi. La preside era stata trasferita d’ufficio per incapacità dimostrata.

Nei trasferimenti dei presidi, nessuno dei miei colleghi, che mi precedevano in graduatoria, l’aveva chiesta. Era una scuola da cui stare alla larga. Ma non per me. Io avevo sempre creduto che Via Popilia non fosse stata condannata da Dio, ma era stata condannata dagli uomini. Ed io non volevo essere uno di questi uomini. Anche perché Via Popilia mi aveva accolto da bambino. Avevo imparato a nuotare nel fiume Crati lì vicino.

Appena messo piede in quella scuola, ho iniziato la mia azione di riforma organizzativa. Il Comune non voleva saperne di quella scuola. Ho dovuto lottare per far capire loro che non potevano criminalizzare l’istituzione scuola. Se c’era qualcuno da criminalizzare era il dirigente. Ma adesso il dirigente era cambiato.

Fui ascoltato da un giovane dirigente, il vice capo dell’ufficio tecnico, Franco Collorafi, con il quale facemmo un patto. Il comune avrebbe azzerato tutti i danni e tutti i guasti che la scuola presentava e la scuola si impegnava, per i successivi dieci anni, a non fare spendere al Comune una lira per riparazioni di danni o guasti. Fummo di parola entrambi.

Ma la parte fisica della scuola era il problema meno importante. Quello umano era gigantesco. Gli atteggiamenti mentali non si cambiano facilmente. E ce ne accorgemmo il primo giorno di scuola. Il cortile esterno, non ancora recintato, era pieno di genitori, alunni e televisioni. Tutte le televisioni locali e la RAI erano lì presenti per cogliere il primo fattaccio. Come ogni anno.

Ma quell’anno non successe nulla all’esterno. L’afflusso degli alunni era stato organizzato nei minimi particolari. Ma un capobastone travolse il bidello alla porta gridando che lui sarebbe andato in classe a scegliere il posto a suo figlio. Ho cercato di farlo ragionare spiegandogli che le sue prerogative di padre terminavano alla porta di ingresso. All’interno ero io ad assumermi tutte le responsabilità verso gli alunni e verso i genitori.

Sembrava fosse convinto e fece finta di andarsene. Ma si girò di scatto e mi diedi un pugno in viso. I miei occhiali volarono via e lui che gridava “chi sei tu che non mi fai entrare?!” La mia reazione fu istintiva. Anche senza occhiali. Lo presi per il bavero della giacca e, mentre lo tenevo fermo, diedi ordine alla segretaria di chiamare la polizia e al bidello di chiudere le porte con le chiavi.

Vista la mia decisa fermezza, il capobastone dimostrò una grande verità: sono forti con chi ha paura. Diventano agnellini quando incontrano un forte. Incominciò a belare: “fammi andare via… se viene la polizia mi rovini… sono un pregiudicato”. Allentai la mia presa. Ma prima di lasciarlo andare gli chiesi di promettermi che non avrebbe mai più tentato di entrare nelle classi.

I genitori assistettero alla scena dalla vetrata di entrata. E avvenne il miracolo. Il giorno successivo incominciammo ad avere trasferimenti di alunni di via Popilia che si erano iscritti alle scuole del centro. Ne avemmo molti. Tanti da farne due classi supplementari.

Anche la segretaria e l’applicata di segreteria andarono a prendere i loro figli iscritti altrove. La scuola media di Via Popilia, che ben presto diverrà la Fausto Gullo, aveva acquistato la sua prima credibilità: il polso fermo nella direzione. Gli altri sarebbero seguiti.

Ma il prezzo che io personalmente avrei dovuto pagare era ancora da venire. La delinquenza giovanile non voleva perdere quel mercato di spaccio. Cercarono di intimorirmi in tutti i modi. Prima bucarono più volte le gomme della mia auto parcheggiata all’esterno della scuola. Poi vennero più volte sotto casa a squarciare tutte e quattro le gomme. PER TRE VOLTE HO DOVUTO CHIAMARE IL GOMMISTA PER SOSTITUIRMI LE GOMME. DUE VOLTE HO DOVUTO CAMBIARE IL PARABREZZA. UNA VOLTA IL LUNOTTO POSTERIORE.

Alla fine hanno capito che non avrei ceduto alla violenza. Vigliacco, mai! Il mercato della droga l’ha fatto sparire il figlio di un capobastone. Era un ragazzo di terza. Pulito. Non seguirà mai le orme di suo padre.

Aveva visto i cambiamenti della scuola ed era uno di quegli alunni che hanno creduto in me da subito. Un giorno chiese di parlarmi. Mi fece un discorso sensato: “la droga non andrà mai via finchè c’è un mercato. Dobbiamo fare sparire il mercato. Me ne occupo io con altri compagni che condividono quello che state facendo, ma voi dovete starci accanto”.

Per la fine dell’anno il mercato della droga era sparito completamente per non ritornare mai più. Era il dono che questo ragazzo aveva fatto alla scuola. Alla “sua” scuola, che avrebbe lasciata quell’anno.

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giovedì 18 marzo 2010

FRANCO FELICETTI’S STORY (29)

UN DOCENTE INQUIETO E INSODDISFATTO


Entrato nella scuola non era come credevo. I presidi avevano perso di vista la didattica ed erano diventati dei burocrati. Quello che interessava loro erano le “carte”. Migliorare l’insegnamento era solo un esercizio verbale da sfoderare nelle riunioni a livello provinciale.

Ho avuto tre presidi. Tutti e tre negativi. Il primo si peccava di conoscere l’inglese perché era stato prigioniero degli inglesi durante l’ultima guerra e cercava di autogloriarsi nelle riunioni collegiali. Non si interessava della didattica, quindi non si è mai reso conto della qualità del mio insegnamento e della mia preparazione. Si peccava di sapere l’inglese meglio di me. Alla fine ho dovuto fargli fare una figuraccia davanti a tutto il corpo docente dimostrandogli che il suo inglese era solo uno dei peggiori “slang” delle persone incolte.

Il secondo preside aveva in odio la cultura. Lui era solo un burocrate e ne era cosciente. Non amava i libri. Quando gli chiesi in prestito un libro della biblioteca docenti, me lo negò dicendo che i libri rovinano le persone. A lui interessava solo la massoneria, di cui era un esponente di rilievo.

Il terzo preside, infine, quando gli chiesi di poter utilizzare tutti i sussidi didattici di cui era dotata la scuola per creare un laboratorio linguistico, me li negò dicendo che potevano rompersi. Questo mi fece decidere che se volevo una scuola come dicevo io dovevo andare a crearmela da solo diventando preside. E così feci.

Il primo incarico lo ebbi per la scuola media di Campana, un paese sul versante jonico della Sila. Lì feci la mia rivoluzione nell’organizzazione della scuola e nel rinnovamento della didattica. La scuola, come tutte le scuole d’Italia, era dotata di una moltitudine di sussidi didattici per tutte le discipline, che non veniva utilizzato, ma veniva stipata in ogni anfratto.

Con questi sussidi didattici era possibile introdurre la MULTIMEDIALITA’ nell’insegnamento. Ma l’edificio della scuola non si prestava per istituire un laboratorio multimediale per ogni disciplina. Era una casa per abitazione civile riadattata a scuola. Gli spazi erano limitati alle aule.

Gli uffici erano… addirittura… allogati nell’edificio di fronte a quello delle aule. Tra i due edifici scorreva una strada comunale. Adiacente alla scuola c’erano degli spazi liberi comunali. Solo una grossa fantasia poteva immaginare che da questa situazione si potesse concepire una scuola avanzatissima nella didattica.

La multimedialità non era ancora arrivata nelle scuole italiane. Vi arriverà dopo 15 anni. Ma a Campana la realizzammo quell’anno. Il primo della mia carriera di preside. A me erano state negate le ali che volevo per volare nella didattica della mia disciplina. Se me le avessero date, forse non sarei mai diventato preside.

Da preside volevo che ogni docente avesse questo paia di ali. Dove mancavano le strutture, supplì la fantasia. Abolimmo le aule tradizionali. Al loro posto istituimmo un’aula-laboratorio per ogni disciplina fornita da tutti i sussidi didattici multimediali disponibili.

In questa organizzazione, non era il docente che si spostava al termine dell’ora. Era la classe che si spostava nell’aula laboratorio in orario.

Questo esperimento è potuto nascere perché il corpo docente era giovanissimo. Quasi tutto incaricato. Aveva voglia di fare. Era ancora nella fase dell’entusiasmo. Ma aveva un grossissimo difetto. Era diviso in Montecchi e Capuleti. Bianchi e rossi. La serenità della scuola ne soffriva.

Io stesso ero un rosso, ma non del loro stampo. Io avevo instaurato un ottimo rapporto con il sindaco, un bianco. Questo sindaco era molto intelligente ed accolse tutti i miei suggerimenti per fare una scuola dignitosa.

In fin dei conti ne beneficiavano i ragazzi del suo paese. Costruì finanche una palestra scoperta in uno spiazzo comunale adiacente alla scuola. La divisione politica dei docenti la superai drammatizzando il fenomeno. Convocai tutto il corpo docente al portone d’ingresso della scuola. Ad un bidello… un rosso… chiesi di attaccare il gancio, di cui l’avevo dotato, ad un lato del portone d’ingresso.

Rivolto ai docenti, fortemente incuriositi, dissi: “signori! Siete pregati, prima di entrare nella scuola, di appendere la vostra veste politica a quel gancio. Nella scuola dobbiamo fare politica, ma deve essere solo politica scolastica”. E, rivolto al bidello, segretario di un partito… dissi “tu sei il primo che devi rispettare questa regola”

Il provveditorato, avuto sentore di quello che stava avvenendo a Campana, mi chiese una relazione. Quella relazione fu trasformata in un libretto con questo titolo: CAMPANA: UNA SCUOLA DIVERSA, che si trova pubblicato nel mio sito www.franco-felicetti.it.

Quando lasciai Campana, il giornalino della parrocchia scrisse un articolo: UNA FATA A CAMPANA. Una fata che aveva saputo creare una scuola a dimensione di alunno, dove ognuno avevo potuto raggiungere il traguardo con le proprie forze Quando mi trasferii altrove, i docenti erano, giustamente, delusi .

Uno mi disse: “Ora sarà duro ritornare alla scuola tradizionale senza i laboratori . Ci avete fatto illudere”. La preside, che mi sostituì, smantellò tutto nei primi giorni. Lei non credeva nella multimedialità dei laboratori. Lei credeva nel libro come unico sussidio didattico.

Questa scuola ha avuto un seguito, che si può leggere in un post di questo blog LA SCUOLA MEDIA FAUSTO GULLO DI VIA POPILIA., che il Sole24Ore, nel 1994, definì “l’unica scuola media eccellente in Calabria”. La scuola media FAUSTO GULLO di Via Popilia è nata a Campana. Nel mio primo anno di presidenza.

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giovedì 11 marzo 2010

FRANCO FELICETTI’S STORY (28)

IL TOCCO FINALE DELL’ARTISTA

Non ero a Parigi per mangiare. C’ero per studiare in un ambiente culturale unico e per diventare un uomo di esperienza.

Ho raggiunto tutte e due gli obiettivi, anche se, devo dire onestamente, sono stato aiutato dalla fortuna. Verso sera, prima di incontrarmi con gli amici, andavo su boulevard S. Michel, nel quartiere latino, dove si trova la Sorbona, per fare esercitazioni di psicologia della personalità. Mi mettevo sul marciapiedi col viso rivolto verso la discesa e puntavo una persona a 50/60 mt di distanza.

In quel tratto di strada, la passavo al setaccio psicologico per apprendere il più possibile sulla sua personalità. Funzionava. Ma una sera accadde l’imprevisto. Avevo puntato una donna e la stavo scrutinando per tutto il tragitto. Ma questa, invece di proseguire oltre, si fermò davanti a me e disse: “so cosa stai facendo. Stai cercando di capire che tipo psicologico sono”.

Era una professoressa di storia dell’arte nell’università di Zagabria, una slava. Si trovava a Parigi per delle ricerche. Parlava tutte le lingue europee. L’italiano lo parlava alla perfezione. Aveva una diecina di anni più di me. Ma l’ETA’ CRONOLOGICA conta poco. Per stare bene insieme è l’età mentale che conta. Ed io sono sempre stato più maturo dei miei coetanei. Culturalmente le stavo alla pari. Lei diceva che questo era insolito in un giovane.

Facemmo amicizia. Lei era una gran bella donna ed aveva il calore delle donne slave. Mi fece fare un’esperienza più ricca e più matura di quella che potevo permettermi io. Ma soprattutto mi introdusse nel mondo degli adulti. Degli “arrivati”.

Mi portò nei locali più esclusivi di Parigi. Anche in quelli più hard (osè). Voleva saziare la mia sete di esperienze in tutte le direzioni. Vedevo che al momento di saldare il conto entrava in leggera difficoltà. Mi spiegò che le dava fastidio che la gente potesse pensare che si pagasse l’amante giovane.

Era sorpresa delle mia sensibilità artistica e fece di me il suo “allievo”. Mi fece diventare espertissimo nella critica dei nudi. Lei posava per me. Assumeva tutte le posizioni tipiche dei nudi perché voleva che io imparassi a leggere un nudo da tutti gli angoli visuali. E mi ripeteva sempre: “nella fruizione di un nudo non pensare mai al sesso. Devi concentrarti sull’opera d’arte”.

Ma io questo l’avevo appreso nei casinò di Las Vegas e Reno nel Nevada. Dove gli spettacoli di nudo erano famosissimi. Uno mi era rimasto impresso nella mente. Era intitolato THE FLOWER BUD (=il bocciolo). In una piscina c’era un fiore. Al suono di una musica dolcissima, lentamente, questa fiore si apriva e ne usciva una fanciulla dalle fattezze perfette. Ma la bellezza delle sue fattezze te le faceva scoprire lentissimamente con una serie di figure che disegnava col corpo. Era Arte. Vera Arte. L’idea del sesso non mi sfiorò nella mente.

Ma questa seconda prof. della mia vita fece anche di più. Mi introdusse nel mondo degli artisti parigini, nel quartiere di Montparnasse, nei cui bar era conosciutissima. Tutti gli artisti venivano a salutarla. A volte le chiedevano di sedere ai loro tavoli. Io non venivo minimamente calcolato. Ero con lei e questo bastava per accettarmi.

A sera, andavamo a “leggere” pittoricamente le strade ed i palazzi di Parigi, che, col sole al tramonto, assumevano colori cangianti. La notte andavamo alla ricerca di “piazzette”, la cui illuminazione le rendeva uniche. Il nostro era un rapporto basato sull’arte, ma anche su un sano e robusto sesso.

Una notte, mentre eravamo seduti ad ammirare e descrivere (io) le bellezze di una piazzetta, mi fece una sorpresa. Tirò fuori dalla borsa la sua ultima pubblicazione. Vi scrisse una dedica minuziosamente descrittiva di quell’attimo, con data e ora esatte. Me lo diede e disse: “così potrai rivivere quest’attimo per il resto della tua vita”. Aveva ragione. Ancora oggi, se apro quel lavoro, quell’attimo è come vivo.

I suoi amici artisti impararono ad apprezzarmi. Si erano resi conto che io li guardavo col rispetto e la sudditanza psicologica dell’apprendista verso il Maestro. Non mi considerarono più il “ragazzo” di …, ma mi considerarono per ciò che ero: un giovane affascinato del loro mondo e della loro arte.

Incominciarono ad accettarmi anche senza di lei. E fu un’esperienza che capita a pochi. Mi introdussero nella magia dei colori e mi fecero assaporare la loro vita nelle famose mansarde parigine. Mi guidarono nella lettura delle opere d’arte e fecero di me un amante dell’arte e, soprattutto, un amante del loro stile di vita, che, credo, di applicare ora nella mia solitudine di Fiumefreddo: VIVERE CON FANTASIA.

A metà giugno rientrai a Napoli in vespa, dopo aver girato tutta l’Europa per quasi un mese. E qui sbagliai i miei calcoli. Credevo che la primavera del nord Europa fosse mite ed asciutta come quella italiana. Invece era fredda e piovosa. La vespa non era un mezzo adatto. Ed io non ero attrezzato.

Spesso viaggiavo sotto la pioggia. Ma ero giovane. Ricordo che sulle Alpi, alla guardia di confine, che mi chiedeva il passaporto, ho dovuto chiedergli di prenderselo nella mia tasca. Io non riuscivo a staccare le mie mani gelate dal manubrio.

Arrivai fino in Norvegia. Le università erano il mio punto di riferimento. Sia per mangiare, sia per trovare compagnia: una collega che mi introducesse nei “misteri” e nei “paradisi” della città in cui mi fermavo per tre giorni. Era la vespa che faceva miracoli. Piaceva a tutte le ragazze.

Per la sessione a Napoli avevo preparato sette esami. Era urgente che mi laureassi. I soldi erano quasi finiti. Così, nelle due ultime sessioni ho dovuto dare sei e sette esami. Mi sono laureato in cinque anni, ma per tre ero stato all’estero. In due anni ho dovuto dare tutti gli esami.

I soldi non sono bastati. Per la discussione della tesi, ho dovuto fare un “prestito d’onore” di 50 mila lire con una banca di Cosenza con la garanzia di quel mio amico di gioventù, che non seppe dimostrarsi uomo con la sua donna.
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giovedì 4 marzo 2010

FRANCO FELICETTI’S STORY (27)

L’ULTIMO ATTO: LA VILLE LUMIERE

Parigi era la tappa finale dei miei studi all’estero. Alla Sorbona ho frequentato la facoltà di diritto ed economia, dove studiavo “diritto internazionale” ed “economia politica” . Due discipline che non interessavano il mio piano di studio italiano. Ma anche in Canada avevo studiato “scienze politiche” che non rientravano nel mio piano di studio italiano.

Io avevo un progetto ben preciso per quanto riguardava la mia formazione. Avevo, ed ho, una grossa capacità di apprendimento, quindi non ho avuto difficoltà a sovraccaricarmi nello studio. Ho preso due direzioni. La prima mi avrebbe condotto alla laurea in lingue ed istituzioni europee, che rappresentava il mio lavoro futuro sicuro. L’altra riguardava la mia aspirazione a fare politica. Un mondo, questo, tutto da esplorare. Incerto. Molto incerto.


Volevo essere un politico molto preparato. Miravo in alto. Nel mio piano di studio dell’università italiana avevo inserito “diritto amministrativo”, un esame secondario gravosissimo, ma che andava nella direzione della politica. Per conto mio ho studiato “diritto pubblico” e “urbanistica”. Da laureato, mi sono anche iscritto alla facoltà di sociologia di Trento, ai tempi in cui la frequentava anche Renato Curcio, il prima BRIGATISTA ROSSO della storia italiana.

Da questi studi extra curriculari nacque il primo libro che ho scritto, di sociologia politica: LA STRUTTURA POLITICA DELLA SOCIETA’, da cui nacque, successivamente, un testo di educazione civica destinato alle scuole medie superiori. Questo testo ha avuto un discreto successo, ma a me non sono mai stati corrisposti i diritti d’autore. Non ho inteso protestare. Non ho mai amato i soldi per i soldi.


All’università della Sorbona , avevamo formato un gruppetto di colleghi interrazziale. Francesi, italiano (io solo), magrebini, neri delle Antille. Tutti ragazzi e ragazze molto responsabili. La notte andavamo in giro per Parigi. Volevamo divertirci assaporando la notte in questa città che non si addormenta mai. Ma, puntualmente, al mattino eravamo tutti a lezione. Ci andavamo direttamente. Il dovere verso noi stessi prima di tutto. Si dormiva quando si poteva.

Parigi è stata un’esperienza fantastica. Come studioso. Come giovane assetato di esperienze di vita. Come giovane ambizioso. La GRANDEUR a Parigi si respira con l’aria. La bevi al mattino col caffè. La senti in ogni centimetro quadrato che calpesti. Di crisi di crescenza intellettuale a Parigi ne ho avuto più d’una. Mi sentivo piccolo piccolo. Ma ogni volta riprendevo quota più forte di prima.

A Parigi non dovevo lavorare per vivere. I soldi li avevo portati dal Canada, ma erano contati. Mi dovevano bastare per tutto l’anno scolastico. I richiami per un giovane a Parigi sono forti. Non puoi far finta di non sentirli. Un giovane deve anche saper rispondere alle sfide se vuole maturare anche come uomo.



Per me, il fatto dei soldi si pose subito. La notte spendevamo poco, ma io quel poco non l’avevo. Dovevo rinunciare a qualcosa. Non volevo rinunciare alle nostre nottate. Sentivo che quelle erano esperienze che ti danno un’altra dimensione come uomo. Ho rinunciato alla qualità del mangiare: ho rinunciato alla mensa universitaria. Me la permettevo di tanto in tanto, quando la fame era troppo forte.

Per tutto il resto dell’anno ho mangiato una “baghette” di mezzo kg, con un formaggino, uno solo, come companatico per pranzo ed altrettanto per la cena. Non ero a Parigi per mangiare. C’ero per studiare in un ambiente culturale unico e per diventare un uomo di esperienza.

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