giovedì 11 marzo 2010

FRANCO FELICETTI’S STORY (28)

IL TOCCO FINALE DELL’ARTISTA

Non ero a Parigi per mangiare. C’ero per studiare in un ambiente culturale unico e per diventare un uomo di esperienza.

Ho raggiunto tutte e due gli obiettivi, anche se, devo dire onestamente, sono stato aiutato dalla fortuna. Verso sera, prima di incontrarmi con gli amici, andavo su boulevard S. Michel, nel quartiere latino, dove si trova la Sorbona, per fare esercitazioni di psicologia della personalità. Mi mettevo sul marciapiedi col viso rivolto verso la discesa e puntavo una persona a 50/60 mt di distanza.

In quel tratto di strada, la passavo al setaccio psicologico per apprendere il più possibile sulla sua personalità. Funzionava. Ma una sera accadde l’imprevisto. Avevo puntato una donna e la stavo scrutinando per tutto il tragitto. Ma questa, invece di proseguire oltre, si fermò davanti a me e disse: “so cosa stai facendo. Stai cercando di capire che tipo psicologico sono”.

Era una professoressa di storia dell’arte nell’università di Zagabria, una slava. Si trovava a Parigi per delle ricerche. Parlava tutte le lingue europee. L’italiano lo parlava alla perfezione. Aveva una diecina di anni più di me. Ma l’ETA’ CRONOLOGICA conta poco. Per stare bene insieme è l’età mentale che conta. Ed io sono sempre stato più maturo dei miei coetanei. Culturalmente le stavo alla pari. Lei diceva che questo era insolito in un giovane.

Facemmo amicizia. Lei era una gran bella donna ed aveva il calore delle donne slave. Mi fece fare un’esperienza più ricca e più matura di quella che potevo permettermi io. Ma soprattutto mi introdusse nel mondo degli adulti. Degli “arrivati”.

Mi portò nei locali più esclusivi di Parigi. Anche in quelli più hard (osè). Voleva saziare la mia sete di esperienze in tutte le direzioni. Vedevo che al momento di saldare il conto entrava in leggera difficoltà. Mi spiegò che le dava fastidio che la gente potesse pensare che si pagasse l’amante giovane.

Era sorpresa delle mia sensibilità artistica e fece di me il suo “allievo”. Mi fece diventare espertissimo nella critica dei nudi. Lei posava per me. Assumeva tutte le posizioni tipiche dei nudi perché voleva che io imparassi a leggere un nudo da tutti gli angoli visuali. E mi ripeteva sempre: “nella fruizione di un nudo non pensare mai al sesso. Devi concentrarti sull’opera d’arte”.

Ma io questo l’avevo appreso nei casinò di Las Vegas e Reno nel Nevada. Dove gli spettacoli di nudo erano famosissimi. Uno mi era rimasto impresso nella mente. Era intitolato THE FLOWER BUD (=il bocciolo). In una piscina c’era un fiore. Al suono di una musica dolcissima, lentamente, questa fiore si apriva e ne usciva una fanciulla dalle fattezze perfette. Ma la bellezza delle sue fattezze te le faceva scoprire lentissimamente con una serie di figure che disegnava col corpo. Era Arte. Vera Arte. L’idea del sesso non mi sfiorò nella mente.

Ma questa seconda prof. della mia vita fece anche di più. Mi introdusse nel mondo degli artisti parigini, nel quartiere di Montparnasse, nei cui bar era conosciutissima. Tutti gli artisti venivano a salutarla. A volte le chiedevano di sedere ai loro tavoli. Io non venivo minimamente calcolato. Ero con lei e questo bastava per accettarmi.

A sera, andavamo a “leggere” pittoricamente le strade ed i palazzi di Parigi, che, col sole al tramonto, assumevano colori cangianti. La notte andavamo alla ricerca di “piazzette”, la cui illuminazione le rendeva uniche. Il nostro era un rapporto basato sull’arte, ma anche su un sano e robusto sesso.

Una notte, mentre eravamo seduti ad ammirare e descrivere (io) le bellezze di una piazzetta, mi fece una sorpresa. Tirò fuori dalla borsa la sua ultima pubblicazione. Vi scrisse una dedica minuziosamente descrittiva di quell’attimo, con data e ora esatte. Me lo diede e disse: “così potrai rivivere quest’attimo per il resto della tua vita”. Aveva ragione. Ancora oggi, se apro quel lavoro, quell’attimo è come vivo.

I suoi amici artisti impararono ad apprezzarmi. Si erano resi conto che io li guardavo col rispetto e la sudditanza psicologica dell’apprendista verso il Maestro. Non mi considerarono più il “ragazzo” di …, ma mi considerarono per ciò che ero: un giovane affascinato del loro mondo e della loro arte.

Incominciarono ad accettarmi anche senza di lei. E fu un’esperienza che capita a pochi. Mi introdussero nella magia dei colori e mi fecero assaporare la loro vita nelle famose mansarde parigine. Mi guidarono nella lettura delle opere d’arte e fecero di me un amante dell’arte e, soprattutto, un amante del loro stile di vita, che, credo, di applicare ora nella mia solitudine di Fiumefreddo: VIVERE CON FANTASIA.

A metà giugno rientrai a Napoli in vespa, dopo aver girato tutta l’Europa per quasi un mese. E qui sbagliai i miei calcoli. Credevo che la primavera del nord Europa fosse mite ed asciutta come quella italiana. Invece era fredda e piovosa. La vespa non era un mezzo adatto. Ed io non ero attrezzato.

Spesso viaggiavo sotto la pioggia. Ma ero giovane. Ricordo che sulle Alpi, alla guardia di confine, che mi chiedeva il passaporto, ho dovuto chiedergli di prenderselo nella mia tasca. Io non riuscivo a staccare le mie mani gelate dal manubrio.

Arrivai fino in Norvegia. Le università erano il mio punto di riferimento. Sia per mangiare, sia per trovare compagnia: una collega che mi introducesse nei “misteri” e nei “paradisi” della città in cui mi fermavo per tre giorni. Era la vespa che faceva miracoli. Piaceva a tutte le ragazze.

Per la sessione a Napoli avevo preparato sette esami. Era urgente che mi laureassi. I soldi erano quasi finiti. Così, nelle due ultime sessioni ho dovuto dare sei e sette esami. Mi sono laureato in cinque anni, ma per tre ero stato all’estero. In due anni ho dovuto dare tutti gli esami.

I soldi non sono bastati. Per la discussione della tesi, ho dovuto fare un “prestito d’onore” di 50 mila lire con una banca di Cosenza con la garanzia di quel mio amico di gioventù, che non seppe dimostrarsi uomo con la sua donna.
CONTINUA

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