giovedì 29 aprile 2010

FRANCO FELICETTI’S STORY (35)

UN VERO ITALIANO

TEHERAN è stata un’esperienza unica da tanti punti di vista. Come città non aveva nulla di speciale, ma era il cuore pulsante di una grande civiltà del passato: la PERSIA. Ed era uno dei centri più importanti della CIVILTA’ ISLAMICA. Il FONDAMENTALISMO ISLAMICO è nato a Teheran con la RIVOLUZIONE COMENEISTA.

L’impatto con la città e le sue regole islamiche non fu indolore. Sin dal primo giorno ho dovuto rinnovare, in parte, il mio abbigliamento. Le camicie a mezze maniche non erano gradite alle regole islamiche e ho dovuto comprarle a maniche lunghe. Camminare solo per le strade della città si correva il rischio di cadere nei PASDARAN, i guardiani della rivoluzione, che avevano in sospetto tutti gli stranieri.

Ma io ero in buone mani. La preside della scuola mi aveva affidato alle cure della segretaria della scuola. Una iraniana che aveva studiato a Perugia. La scuola stessa era formalmente una scuola italiana a tutti gli effetti. Aveva il proprio edificio con la bandiera italiana. Aveva la propria dirigenza e il proprio corpo docente. Questo era al 60% composto da docenti di ruolo in Italia comandati. Il 40% era stato reclutato tra i docenti locali che avevano studiato all’università di Perugina. Il superiore gerarchico della preside non era un provveditore, ma il Console d’Italia.

La scuola aveva dei grossi problemi interni che creavano un clima di conflittualità all’interno del corpo docente. Questo faceva perdere efficienza alla scuola, che, potenzialmente, avrebbe potuto aggregare un maggior numero di alunni provenienti da altre comunità europee locali che non avevano una propria scuola sul territorio.

Non parlo degli alunni perché vale quello che ho detto per le “scuole di cantiere di Abidjan e Paute”, con la sola differenza che questa scuola poteva fornire una didattica più vicina a quella delle scuole metropolitane perché fornita da tutti i sussidi didattici e le strutture necessarie: palestra, auditorium, ecc.

La scuola aveva una potenzialità di espansione non sfruttata a causa dei contrasti all’interno del corpo docente: quello metropolitano e quello locale. La preside, vicina alla pensione, non era in grado di dare una soluzione a questo problema che angosciava anche il Console e l’Ambasciatore stesso. Era il prestigio dell’Italia che veniva coinvolto.

Il dovere di un Commissario d’esami è quello di presentarsi alla massima autorità italiana presente sul territorio. Io mi presentai al Console, il quale volle che conoscessi anche l’Ambasciatore. Tutte e due erano crucciati per la situazione interna della scuola. Le loro parole fecero effetto su di me. Mi avevano coinvolto senza esprimerlo.

Ho studiato la situazione per giorni dall’interno. Ebbi colloqui con tutti gli interessati, compresa la preside, che era contestata da alcuni docenti. Alla fine ho creduto di aver trovato il modo di portare pace e sviluppo dove c’era guerra e degrado. Ho tenuto un’assemblea di tutto il personale della scuola. Ho esposto le mie idee chiedendo che tutti si assumessero le proprie responsabilità: crescere in armonia, come io proponevo, o continuare nella lenta opera di degrado.

All’unanimità l’assemblea votò il mio progetto, che piacque anche al Console e all’Ambasciatore.
Prima di lasciare Teheran, il Console mi convocò all’ambasciata. Mi consegnò un libro fotografico della stupenda ambasciata italiana con i suoi tesori d’arte ed i suoi incomparabili giardini. Il libro porta questa dedica a sua firma:

“A UN VERO ITALIANO E A UN GRANDE AMICO DELLA SCUOLA ITALIANA DI TEHERAN. CON SINCERI SENTIMENTI DI STIMA, SIMPATIA E GRATITUDINE. “

ETTORE FRANCESCO SEGNI, CONSOLE D’ITALIA A TEHERAN

Ad onor del vero io avevo ricevuto più di quello che avevo dato. Non come uomo di scuola, ma come uomo di cultura e come studioso della società. Io avevo vissuto un’esperienza superba all’interno della SOCIETA’ ISLAMICA, grazie alla mia guida, che apparteneva alla società bene di Teheran.

Sin dal primo contatto capì quello che volevo e si prodigò per farmelo avere. La preside, per il Commissario, aveva preparato le solite visite ai luoghi archeologici dell’antica Persia. Io, invece, volevo vivere all’interno della palpitante società islamica di quel momento. Ed ebbi tutto. Ma la mia guida tenne a precisare una cosa sin da subito: “SIAMO MUSSULMANI, MA NON SIAMO ARABI”. In seguito capì che questa precisazione con me poteva evitarsela.

Il giorno dopo il mio arrivo in città c’era il funerale di un notissimo personaggio, dove la mia guida, appartenente alla società bene di Teheran, doveva andare. Colsi l’occasione per fare esperienza di un funerale mussulmano celebrato in una moschea. Tutta la famiglia della segretaria mi diede assistenza. In primis suo zio, giudice, e suo padre, un notabile persiano. Erano tutti preoccupati per le mie scarpe. Per entrare in moschea bisognava togliersele. Loro erano lì per assicurarsi che, all’uscita, avrei ritrovato le “mie” scarpe. Spesso succede che ti devi prendere quelle che ti lasciano. Io ritrovai le mie. Grazie a loro.

All’interno della moschea, reparto uomini, mi comportai come un mussulmano. Partecipando formalmente alle loro preghiere. Avevo un grande rispetto per quel luogo di culto. Come lo ho quando mi trovo in una chiesa. Prima di uscire andai anche a dare le condoglianze ai familiari del defunto. Tutto in stile mussulmano come facevano quelli che mi precedevano. La folla era immensa. C’era tutta la città.

La mia guida mi fece ottenere un invito ad un FIDANZAMENTO UFFICIALE e a un MATRIMONIO. Sono stato accolto bene in tutte e due le parti perché mi sforzavo di parlare la loro lingua e mi comportavo secondo le loro usanze, che mi venivano spiegate dalla mia guida prima di entrare.

CONTINUA

giovedì 22 aprile 2010

FRANCO FELICETTI’S STORY (34)

DAGLI APPENINI ALLE ANDE


Dell’esperienza di Teheran, di gran lunga la più importante, ne parlerò nel prossimo post. Qui mi voglio occupare della SCUOLA DI CANTIERE del FIUME PAUTE, una località a 400 km a Sud di QUITO, ECUADOR. Qui IMPREGILO, l’impresa che dovrà costruire il PONTE DI MESSINA, stava costruendo una grossa diga idroelettrica.

Il Cantiere era lontanissimo dai centri abitati. C’era solo il villaggio di BUNGALOWS dei dipendenti di Impregilo. La scuola era allogata in uno di questi bungalows. I docenti erano tutti dipendenti dell’impresa che prestavano la loro opera anche come docenti. C’erano anche mogli di dipendenti, qualificate, che insegnavano.

Gli alunni avevano un’ottima preparazione, anche se raggiunta con una didattica tradizionale. Ma non era questo che importava. Era stata la vita che aveva dato una maturità straordinaria a questi ragazzi. Come Commissario non potevo non ammirarli. Anzi ho fatto di più. Sono diventato loro compagno di giochi.

Il Cantiere si trovava al centro di una foresta inestricabile, come la FORESTA AMAZZONICA, da cui non era troppo distante. Come piccoli esploratori, questi ragazzi avevano esplorato un vasto territorio tutto intorno al cantiere ed avevano tracciato dei sentieri. Io chiesi di essere uno di loro in una di queste escursioni. Le mie prestazioni, però, erano alquanto rallentate rispetto a quelle usuali.

Ma i ragazzi lo avevano capito. Era il fenomeno dell’altitudine che mi provocava questo rallentamento. Lo avevo percepito appena sbarcato a QUITO, la capitale dell’Ecuador sulla CORDIGLIERA DELLE ANDE, a 3000 m. di altitudine. I primi giorni le mie gambe ne risentirono. La foresta del Paute era a 3500 m. Ecco perché i ragazzi mi potevano essere maestri per quanto riguardava i fenomeni dell’altitudine.

In effetti, chiesero ad uno dei loro insegnanti di portarmi a quota 5000. A quell’altitudine non riuscivo a stare in piedi. Avevo difficoltà di respirazione. L’insegnante mi fece sdraiare per terra per una ventina di minuti finchè il corpo non si è assuefatto a quella altitudine.

Mentre stavo sdraiato per terra mi venne in mente un racconto che avevo letto da bambino: DAGLI APPENNINI ALLE ANDE, dal libro CUORE di EDMONDO DE AMICIS. Un libro che lessi molte volte. Ora questo viaggio l’avevo fatto io. Mutatis mutandi, naturalmente.

Terminati gli esami, andai a salutare il direttore del campo, il quale mi chiesi quanto mi doveva per i compensi d’esami. “Nulla”, fu la mia risposta. “La missione mi viene corrisposta dal Ministero degli Esteri italiano.” Il direttore si appartò per fare una telefonata. Al rientro mi disse: “il vice direttore generale di Impregilo, in questo momento, è in Ecuador, a Quito. Vorrebbe avere il piacere di averla a cena”.

Arrivai a Quito in aereo. La cena si rivelò un disastro totale per il mio stomaco, ma divenne un’esaltazione unica per la mia persona, come dirigente scolastico e come uomo di cultura. Il mio stomaco fu stravolto, ma non ebbi il coraggio di spegnere l’entusiasmo col quale il vice direttore generale di Impregilo aveva organizzato la cena. Voleva farmi assaggiare qualcosa di unico, ma, il poverino, non pensò che non tutti hanno gli stessi gusti.

Io odio l’aglio. Lui lo amava, evidentemente. Non sapevo se gli altri due commensali, suoi collaboratori, lo amassero anche loro o se si stavano adeguando come mi stavo adeguando io. Il cameriere mise davanti ad ognuno di noi un pentolino su un fornello a tre piedi alimentato da una fiammella. Nel pentolino c’era dell’olio bollente la cui superficie era coperta di agli. Aglio bollente. Al centro del tavolo mise una cesta piena di GAMBERETTI VIVI.

La fiammella teneva l’olio sempre bollente. Noi dovevamo mettervi i gamberetti i mangiarceli. Questa era la prelibatezza che il vice direttore voleva farmi assaggiare. Mi domandò se gradivo. “moltissimo”, fu la mia risposta. Qualche volta nella vita bisogna saper essere ipocrita.

Ma ci fu un rovescio della medaglia molto lusinghiero per me. Mi confessò che lui non era solito andare a cena con persone sconosciute, ma io ero un caso particolare. Impregilo aveva preparato un bel gruzzoletto di dollari per me come compenso d’esami, ma io li avevo rifiutati. Era la prima volta che questo accadeva. Negli anni passati tutti gli altri Commissari avevano presentato il loro conto.

Lui voleva rendersi conto se ero stato io a sbagliare o se erano stati gli altri che non erano stati sufficientemente onesti. Alla fine della serata si diede la risposta da solo. “Preside”, mi disse, “dato che lei deve fermarsi ancora per qualche giorno a Quito in attesa dell’aereo, Impregilo vuole ringraziarla per la sua correttezza offrendole un biglietto per le GALAPAGOS. LE SAREMMO GRATI SE ACCETTASSE”.

Come uomo di cultura sono stato felice di aver sottoposto il mio stomaco alla tortura dell’aglio. Le Galapagos è l’arcipelago, di fronte alle coste dell’Ecuador, dove CHARLES DARWIN elaborò la sua TEORIA SULL’EVOLUZIONE DELLA SPECIE. Una teoria che mise in crisi, dopo millenni, la TEORIA CREAZIONISTA uscita dalla Bibbia e difesa dalla Chiesa.

Non era il biglietto per le Galapagos che mi fece sentire gratificato. Quello potevo permettermelo da solo. Ma il gesto e il suo significato. Un uomo come me vive anche di queste cose.

giovedì 15 aprile 2010

FRANCO FELICETTI’S STORY (33)

IL MAL D’AFRICA

Durante la mia carriera di preside ho avuto il piacere di essere nominato, per tre volte, Commissario per gli esami nelle scuole italiane all’estero. In tre diverse parti del mondo. In Africa, in Medio Oriente, in Sud America. Sono state tre esperienze esaltanti per tanti motivi. Prima di tutto perché i ragazzi che ho incontrato erano, in tutti i tre posti, ragazzi di prima scelta.

Ragazzi della vera Italia. Dell’Italia che lavora. Dell’Italia formato esportazione. Il meglio del meglio. Il confronto con i ragazzi in patria non regge. Loro hanno qualcosa in più. Qualcuno direbbe che hanno “un capello in più”. Forse è così. Questi ragazzi sanno che la vita è sacrificio, è impegno, è dedizione. Sentono fortemente la mancanza dell’Italia, ma sanno che torneranno per occupare il loro posto nella società italiana.

La prima esperienza fu in Africa. Ad ABIDJAN. Capitale della COSTA D’AVORIO. La scuola era gestita dall’Eni ai cui figli dei dipendenti era indirizzata. Il corpo docente era tutto italiano. Una parte era composto da docenti titolari di cattedra in Italia comandati all’estero. Il resto erano docenti reclutati tra i familiari dei dipendenti dell’Eni.

Per quanto riguardava gli esami, la vita del Commissario era di tutto riposo per due motivi. I docenti erano fortemente motivati ad ottenere risultati più che positivi. Gli alunni erano fortemente motivati ad apprendere. Dietro di loro c’erano delle famiglie che conoscevano il valore dell’istruzione.

Come COMMISSARIO-TURISTA ho fatto delle esperienze bellissime. Ho voluto conoscere la vera Africa. Quella dei villaggi dei nativi. Quella delle MISSIONI e dell’umanità che le frequenta, ancora preda dell’ANIMISMO. Ho partecipato ad un pranzo collettivo di tutta la comunità della missione offerto da una famiglia africana del luogo. Il missionario mi ha detto che la comunità VIVEVA DI CARITA’. Quel pranzo ne era una testimonianza.

Fu la missione che organizzò la mia visita in un villaggio dell’interno. Già dalla macchina ho visto i guasti della CIVILTA’ OCCIDENTALE. Sul greto del fiume, che costeggiava il villaggio, c’erano delle donne intende a fare il bucato a SENO NUDO. Appena ci hanno visto da lontano si sono coperte in tutta fretta. Questo era un dono della civiltà dell’uomo bianco: l’IDEA DEL PUDORE.

I docenti italiani comandati, per la maggior parte donne, mi hanno fatto capire, finalmente, cosa significasse il MAL D’AFRICA, di cui diventano affetti tutti i bianchi che lasciano l’Africa. Questi docenti percepivano l’indennità di missione all’estero, che significava triplicare il proprio stipendio italiano.

Il costo della vita ad Abidjan era bassissimo. I salari erano da fame. Con poche lire al mese potevi permetterti una persona di servizio per tutto il giorno. Agli inviti a cena delle insegnanti c’era un grande sfoggio di personale di servizio. C’era il cuoco, il cameriere che serviva a tavola con i guanti bianchi, la donna in divisa tuttofare.

La padrona di casa era veramente la “Signora”. Avevo scoperto perché l’uomo bianco soffre di MAL D’AFRICA una volta tornato in Europa. Quelle cose, in Europa, non se le poteva consentire. Era costretto a ridiventare una persona comune.

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venerdì 9 aprile 2010

FRANCO FELICETTI’S STORY (32)

FRANCO FELICETTI’S STORY (32)

FALLIMENTO TOTALE IN POLITICA

In politica è stato un fallimento totale. Tutti quegli studi che avevo fatto si dimostrarono controproducenti. La maggior parte delle persone non entra in politica per DARE, ma per AVERE. Vi entra chi cerca un POSTO AL SOLE. Chi è pronto a raggiungere qualsiasi compromesso pur di arrivare allo scopo. Chi fa sua la massima di Machiavelli: IL FINE GIUSTIFICA I MEZZI.

Mi resi conto che io non ero fatto per la politica. Nei miei studi di scienza politica avevo incontrato un presidente degli Stati Uniti, non ricordo più come si chiamava, che aveva detto: “la politica è shit (merda), ma a me piace affondarvi le mani”.

Io non sono stato capace di affondarvi le mie. Se volevo restare in politica, i valori, su cui avevo fondato la mia formazione, dovevo rinnegarli. La lealtà in politica non può esistere come valore di lunga durata. Tutto deve essere finalizzato. Tutto deve essere strumentalizzato.

Il mio primo tracollo, come dirigente di partito, lo ebbi perché non seppi ritirare in tempo la mia lealtà ad un leader di medio calibro, che stava per essere fatto fuori. Il triste è che questo aveva capito che l’avrebbero fatto fuori e votò così come si vuole “colà dove si puote”, contro se stesso, salvandosi. Io votai per lui e caddi in disgrazia.

L’amicizia nel partito non può essere un valore stabile. Deve mutare come mutano le fortune. L’amico di oggi può essere l’avversario di domani. Io questo non sapevo farlo. La correttezza per me era sacra. La dirittura morale la stessa cosa. Non ho saputo accettare il “sacro” principio, mai espresso, ma sempre imperante, MORS TUA, VITA MEA.

La democrazia nel partito era una pura formalità. Ti davano la possibilità di votare, ma guai se votavi diversamente dalle direttive che erano piovute dall’alto. In una riunione di partito, a casa del LEADER MAXIMO, mi permisi di esprimere liberamente il mio pensiero, che non era esattamente uguale a quello del leader maximo. All’uscita fui aggredito dagli altri dirigenti, che contavano molto più di me, io ero una NEW ENTRY nel SANCTA SANCTORUM del partito. Mi gridarono: “perché lo hai fatto. Lui questi interventi non li gradisce”.

Avevo capito. Non eravamo andati ad una riunione di partito, dove maturano le decisioni. ERAVAMO ANDATI A PRENDERE ORDINI. Questo mi convinse ancora di più che ero sbagliato per la politica.

Diciamola diversamente. Io, durante i miei studi, avevo idealizzato la vita di partito, che non conoscevo. Non sarei dovuto entrare in politica quando la mia personalità si era fissata. Ci sarei dovuto entrare da ragazzo per crescere con valori diversi. Quella fu l’ultima riunione a cui ho partecipato. Poi sono uscito dal partito in silenzio. Nessuno mi ha mai più cercato. Io ero una persona scomoda. Una persona che aveva idee. E, guaio più grosso, le esprimeva.

Qualche anno più tardi, un partito minore venne a contattarmi in connessione al rinnovo dell’amministrazione comunale di Cosenza. La Fausto Gullo era diventata una scuola di prestigio. La popolazione di Via Popilia era tutta dietro di me. Il consenso per quello che avevo fatto era altissimo. Questi politici volevano sapere se ero disponibile per una candidatura a sindaco.

Diedi il mio assenso. Non li ho più rivisti. Poi seppi che avevano portato il mio nome in una interpartitica. Ma gli altri partiti non vollero nemmeno discuterne. Motivarono il loro dissenso con queste parole: “NON E’ MALLEABILE”. Non cercavano un sindaco. Cercavano un paravento dietro il quale continuare a fare i loro affari.

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giovedì 1 aprile 2010

FRANCO FELICETTI’S STORY (31)

UNA RIVOLUZIONE SOCIALE

Con un corpo docente rinnovato all’80%, demmo inizio a quella che, per noi, doveva essere una RIVOLUZIONE SOCIALE ATTRAVERSO LA DIDATTICA: CONTRIBUIRE A CAMBIARE IL QUARTIERE DI VIA POPILIA ATTRAVERSO GLI ALUNNI.. I docenti più coinvolti nella vecchia gestione, quelli che avevano più contribuito a creare quella situazione di degrado, i meno motivati fecero posto a chi credeva fortemente nella funzione di EDUCATORE. Essere docente, in quella scuola, non bastava..

Tre esempi dimostrarono il grande successo di questo corpo docente fortemente motivato. Due interni ed uno esterno alla scuola. Quelli interni sono degli alunni delle terze classi espressi nella festa di addio alla scuola media: “quelli del mitico 94”, come si sono autodefiniti e quello degli alunni rom (1/3 degli alunni).

“A te, o Felicetti, va il nostro grazie di cuore, ti abbiamo fatto arrabbiare, ti abbiamo a volte deluso. Ci volevi più bravi nel parlare, ci volevi perfetti. Forse questo non lo abbiamo raggiunto, ma sappi che tu per noi sei una presenza importante, uno che lascia il “segno”..

ROM SIM (SONO UNO ZINGARO)

“A nome dei Rom voglio ringraziare questa magnifica scuola, che ci ha aperto il suo cuore e in particolare il preside e tutti i professori che hanno mostrato tanta sensibilità verso la comunità gitana che vive e opera nel territorio di Via Popilia. Il nostro gruppo che per sua storia, cultura, tradizione, pratica il nomadismo e non sempre ha trovato le condizioni favorevoli per inserirsi serenamente in un nuovo tessuto sociale, ha invece in questa scuola trovato apertura mentale e amicizie.

Mi basta ricordare, a questo proposito, gli splendidi murales che parlano a tutti della nostra vita, degli affetti, del profondo sentimento religioso che lega la nostra comunità, della nostra fierezza di appartenere a un popolo misterioso e affascinante qual è quello degli zingari.

!n un mondo che diventa sempre più intollerante, e i recenti fatti di cronaca lo dimostrano chiaramente, basterebbe tendere una mano, cosi come voi avete fatto, per aprire il cuore di noi giovani alla speranza in una società più giusta”.

Antonio Bevilacqua





Il terzo è di Massimo Cacciari del 1996, che ha voluto espressamente rivolgere un encomio agli alunni mio tramite.

Signor preside,
La mobilitazione per la ricostruzione della Fenice é, per così dire, universale. II mondo intero partecipa con uno slancio di grande generosità e grosse somme sono già state devolute...

II contributo degli allievi della Sua scuola, peró, ha un sapore diverso, perché ha una storia e un significato diversi. Una storia e un significato che, sia pure sommariamente, mi sono stati riportati ed hanno riportato compiacimento, emozioni, rispetto…

Non vorrei, dopo averla evitata prima, cadere nella retorica. Non posso, peraltro, non chiederle di riferire ai Suoi allievi che Venezia accetta con gioia il loro "pesantissimo" contributo, AUTENTICA PRIMA PIETRA SU CUI RISORGERA’ LA FENICE…

I Suoi allievi, caro Preside, hanno fornito un esempio alto e nobile di coraggio e di intelligenza, che qui non sarà mai dimenticato. Ne sia fiero, come sono io fiero di porgere idealmente la mano ad ognuno di loro.
Massimo Cacciari,
sindaco di Venezia

1994 e 1996. Due date molto importanti per la Fausto Gullo. La prima è l’anno in cui il Sole24Ore ha scritto che la Fausto Gullo era l’unica SCUOLA ECCELLENTE IN CALABRIA. La seconda rappresenta l’anno in cui io ho lasciato la scuola per dimissioni volontarie e non per raggiunti limiti di età. Avevo 40 anni di servizio. Qualche anima pia mi aveva versato i contributi durante il mio lavoro giovanile.

Ma, purtroppo, quest’anno rappresenta anche l’inizio di un nuovo declino della Fausto Gullo. Era una scuola molto complessa. Aveva bisogno di una direzione forte, onnicompetente, ma i miei colleghi non seppero fornirla. Ed avvenne quello che era sempre avvenuto prima della mia direzione. I migliori alunni di Via Popilia emigrarono nelle scuole del centro città. I peggiori, quelli che non avevano una famiglia normale alle spalle, rimasero.

Ma la cosa che mi ha bruciato di più è stato sapere che il mio successore accompagnò un capobastone nella classe di suo figlio per parlare con prof. di religione. Appena entrato in classe, questo capobastone, di fronte agli alunni, dimostrò per cosa era venuto: ad IMPORRE LA SUA LEGGE. Diede due schiaffi al docente, un prete, dicendo:”non ti permettere più di rimproverare mio figlio”.

“L’AUREO PERIODO FELICETTI”, come lo ha definito ROSITA PARADISO, attuale preside della Fausto Gullo, era finito per sempre. Una grande sconfitta per me, ma una grande sconfitta anche per la società che non seppe garantire la continuità.
(chi volesse saperne di più sulla Fausto Gullo apra il post così intitolato).

CONTINUA