giovedì 17 settembre 2009

FRANCO FELICETTI’S STORY (3)

PACTA SUNT SERVANDA

Da piccolissimo (1/4 anni), ero un po’ il beniamino del quartiere. La salita di Pagliaro. A quel tempo era l’estrema periferia di Cosenza. Dopo di noi c’era solo campagna. Il confine tra città e campagna era segnato dalla chiesa evangelica. Che c’è ancora. Allo stesso posto.

Io ero paffutello. Ero scuro di pelle. Tanto scuro che mi appiopparono un nomignolo: “turchicieddru d’a catineddra”. Della “catenina” perché portavo sempre una catenina al collo. Una foto, col cappello di figlio della lupa, mi ricorda che a pasqua avevo sempre un agnellino che portavo al guinzaglio. Ma su questo non ricordo molto.

Ricordo nitidamente che alla befana, per noi figli Felicetti, nella calza c’era solo carbone. Mai un anno che fossimo premiati per essere stati buoni! Per la befana eravamo sempre cattivi. Ma era questo che nostra madre si poteva permettere e questo ci dava. Ma non ci faceva mancare l’amore.

Ne aveva tanto per noi. Per tutti noi. Anche se c’era una particolarità per me, che ero il più piccino. Però nella mia calza, oltre al carbone, c’era anche qualche “topolino” di cioccolato. Poi ho scoperto che era il dono annuale di una signora, la cui immagine è tutt’ora presente vagamente nella mia mente. Questo è il segno della mia perdurante gratitudine. Ci deve essere sempre posto nel proprio cuore per chi ti ha fatto del bene.

Quando era sul letto di morte, quando ha sentito che stava per andarsene, mia madre chiese di me. Le tenni stretta la mano, ma non volli vedere i suoi occhi che si chiudevano per sempre. Per me non era morta. Non poteva morire. Non accettavo la sua morte. Non ho versato una lacrime. Il dolore era troppo forte. Mi aveva inebetito. E poi non credevo fosse veramente morta. Quando Peppe l’accompagnò al cimitero, lo chiamai in disparte e gli dissi. “mamma non è morta, quando arrivi al cimitero toccala. Lei si risveglierà”

Non ho mantenuto la promessa che le avevo fatto da bambino, che, da morta, l’avrei tenuta per sempre sotto il mio letto. Non vado mai a trovarla al cimitero. Non amo i cimiteri italiani e non vorrei mai essere sepolto in uno di essi. Però è nel mio cuore. C’è sempre stata e ci starà sempre. Questa è la forza dell’amore. L’amore di un figlio che ha capito. Oggi l’avrei fatta cremare e la sua urna l’avrei messa sul mio comodino. Idealmente uniti. Come sempre.

Io ero un ragazzino “sveglio”. UN FAST LEARNER. Verso i sei anni mia madre mi portava a lavorare con lei nel periodo di Natale. Incartavamo i “famosi torroncini di Renzelli”. Non nascondo che qualcuno lo mangiavo di nascosto. Erano buonissimi. Ma li mangio ancora oggi. Renzelli non ha mai smesso la loro produzione.

C’era un signore, proprietario di una conceria in VIA POPILIA, che molto spesso mi veniva a prendere la mattina presto e mi portava, col suo calesse, a fare il giro dei paesi circonvicini a raccogliere le pelli per la sua conceria. Stavamo fuori tutta la giornata. Si tornava verso sera. Portava sempre della carne a mia madre per ringraziarla per avermi autorizzato ad andare con lui.

CONTINUA

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