giovedì 28 gennaio 2010

FRANCO FELICETTI’S STORY (22)

IL MARE, LA LUNA E NOI

Le ragazze erano uno schianto. Un’austriaca di una bellezza unica. Sembrava fosse stata scolpita da un cesellatore sublime. Faceva colpo su tutti i maschi della classe turistica. Tutti la corteggiavano. Un prete le stava sempre dietro e lei a stento riusciva a liberarsene.

Ma era anche una narcisista. Voleva tutti gli uomini ai suoi piedi. Si lamentava, con la ragazza tedesca, che c’era un solo uomo che non la corteggiava. E questo le faceva rabbia. Quell’uomo ero io. Ma lei non poteva immaginare che la ragazza tedesca me lo avrebbe riferito. Per me era solo una ICONA. Una bellissima icona. E niente più. Di sessuale non ci vedevo nulla in lei.

La sessualità c’era ed era prepotente nella seconda ragazza. Un’italo-americana. Una mora di origini siciliane che sprigionava fuoco da tutte le parti. Veniva in Italia per andarsi a sposare nella sua terra d’origine. A donne come lei non si può chiedere la fedeltà. E lei diede l’addio al nubilato con tanti trofei da portare in dono al suo futuro consorte.

La terza era una tedesca di pura razza teutonica. Longilinea. Sul biondiccio. Leggermente lentigginosa. Non eclatante nella sua bellezza come l’austriaca. Ma fortemente positiva ed equilibrata. Io ero imbarazzato. Il mio tempo libero sulla nave era limitato. Dovevo studiare. Ero stato fermo due anni con gli esami e, se volevo recuperare, dovevo darmene sette prima di ripartire per Parigi.

Un esame l’avevo proprio il giorno dell’attracco. Tra il dovere verso me stesso e il divertimento non avevo scelta. Il dovere veniva prima. Avevo studiato durante tutto il mio girovagare per l’America e dovevo continuare a farlo ora che gli esami erano vicinissimi.

È vero che ero organizzatissimo. Avevo registrato il mio studio sui singoli esami perché sapevo che durante il viaggio non avrei avuto la concentrazione per studiare. Ma ero sicuro che la stanchezza non mi avrebbe impedito la ripetizione ascoltando i nastri.

La cosa aveva funzionato benissimo fino a quel punto. Mi ero trascinato dietro, per tutta l’America, quel registratore, uno dei primissimi prodotti, che era grande quanto una valigia di media dimensione (7/8 kg). Nulla a che vedere con i registratori miniaturizzati di oggi. La mia decisione la dico in tedesco: gli ESAMI UBER ALL.

L’ho detto alla tedesca perché la mia scelta cadde su di lei, la ragazza tedesca. L’unica che avrebbe potuto capirmi. Infatti, era l’unica che non avesse grilli per la testa. Nel mio tempo limitato le feci fare un’esperienza stupenda. Di sesso niente. Per tacita decisione di entrambi. Eravamo amici e basta.

Due notti prima dell’arrivo a Napoli, mi prese per mano e mi intimò di non parlare. Mi portò nella zona off limits per i passeggeri, sull’estrema punta della prua della nave, che navigava lungo la scia luminosa della luna.

È stata un’esperienza che ti capita una sola volta nella vita. Il mare, la luna e noi. In un misto di poesia e passione. Ecco perché non ho visto nulla di eccezionale nella scena di Di Caprio e la sua donna nel film Titanic. Quella situazione io l’avevo vissuta.

Sono stati giorni eccezionali. Di notte, eravamo frequentatori fissi della prima classe, il cui lusso e la grande varietà di divertimenti ci abbagliavano. La separazione delle classi era mantenuta rigidamente, ma noi due avevamo la complicità del Commissario di bordo e dell’ufficiale incaricato della sorveglianza che io avevo conosciuto il giorno dell’imbarco.

All’imbarco si era liberi di andare in qualsiasi posto della nave. La divisione di classe era abolita. Ma, presa la navigazione, ognuno doveva rientrare nella propria classe. Io ero in prima. Prendevo un coctail con una signora americana.

Un ufficiale girava per invitare tutti a rientrare nella propria classe di appartenenza. Io presi a guardarlo intensamente mentre parlavo e sorridevo con la signora americana. Era una sfida psicologica la mia. Volevo che pensasse che con me avrebbe preso una cantonata. La mia giovane età, con una signora avanti negli anni, non voleva necessariamente dire che non appartenessi alla prima classe.

La psicologia funzionò. Si avvicinò a noi e disse rivolto a me: “lei si aspetta che io le chieda se appartiene alla prima classe ed io non glielo chiedo”, e stava per andarsene. Ma io lo fermai dicendo sorridendo:“farebbe bene a chiedermelo”. La signora sorrise con me. Ma lui apprezzò la mia sincerità: “no!, lei può stare in prima classe”.

Mi aveva promosso. Il “garzone”, che fu rifiutato come marito per la sua appartenenza ad una classe sociale inferiore, veniva ritenuto degno di stare nella PRIMA CLASSE del PIU’ LUSSUOSO TRANSATLANTICO che l’Italia avesse mai varato. La prima classe fu libera per me per tutto il viaggio.

Durante il mio viaggio in lungo e in largo del continente americano avevo fatto un buon tirocinio sull’appartenenza alle classi sociali. Io volevo dimostrare a me stesso che le classi sociali erano solo un paravento per nascondere le proprie deficienze di personalità.

Girovagando per gli Stati Uniti, quando mi imbattevo in un albergo di extra lusso, entravo per andarmi a sedere nella Hall. Molto spesso entravo in discussione con i presenti. Ma mai nessuno si è accorto che appartenevo ad una classe sociale che non si poteva permettere quell’albergo. Era
una dimostrazione che il “garzone” rifiutato aveva la personalità per poter vivere in tutti gli ambienti sociali.

Ma feci di più. A San Francisco, al porto, sulla banchina FISHERMAN’S WHARF, c’era il ristorante più esclusivo e più costoso della città. Che io non potevo assolutamente permettermi. Ma volevo “assaporarlo” per qualche minuto. Entrai. Il MAITRE mi venne incontro: “un tavolo, signore?”. Gli dissi che ero lì soltanto all”ADDURU”. E mi presentai.

Venne il direttore. Mi fece visitare tutto. Anche le cucine. Mi illustrò i menu che avevano. Tre. E… man mano… mi presentava il personale. Alla fine disse: “Sir, may we have the pleasure to have you as our special guest to-day?” Naturalmente, non accettai. Io ero andato solo all’”ADDURU”. E questo l’avevo avuto alla grande.

CONTINUA

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