giovedì 5 novembre 2009

FRANCO FELICETTI’S STORY (10)

LE CLASSI SOCIALI COME BARRIERA

Questa crescita culturale caotica mi provocò un forte disagio nei lavori che facevo. Li sentivo inadeguati alle mie esigenze. Nessuno di essi poteva farmi sentire appagato. Capivo che se fossi rimasto a svolgere un mestiere qualsiasi sarei stato un frustrato a vita.

Come titolo di studio avevo la quarta elementare, ma le mie letture mi avevano dato una maturità sociale molto più alta. Il mio italiano non poteva dirsi perfetto, ma era di buon livello. Anche la mia cultura non era da quarta elementare. Possedevo conoscenze molto più ampie.

Il bar mi aveva fatto frequentare ceti sociali di classe media. Anche gli amici che frequentavo erano di classe media. Ma non ho mai rinnegato i miei amici d’infanzia. Soltanto che la via mi aveva spinto a frequentare altre persone che appartenevano alla classe media.

Ma fino a quell’epoca io non facevo distinzioni di classe. Comunque c’era una spinta in me che mi faceva dirigere verso persone migliori di me. Ma non di proposito. Era una cosa naturale. I miei amici d’infanzia, fintanto che si frequentava la scuola elementare, erano misti. C’era il figlio dell’impiegato, il figlio del professionista, il figlio del mio datore di lavoro, come c’era il figlio dell’operaio e c’era anche il figlio del mendicante.

La separazione avvenne dopo la scuola elementare. Chi se lo poteva permettere proseguiva gli studi. Gli altri andavano nel mondo del lavoro. Ed è da questo momento che il solco tra gli amici di un tempo si incominciò ad approfondire. Chi studiava diventava sempre più maturo intellettualmente. Chi era inserito nel mondo del lavoro rimaneva culturalmente povero. Continuare a frequentarsi diventava di fatto impossibile. Le esigenze erano diverse

Io costituivo un caso a parte. Anch’io mi ero inserito nel mondo del lavoro, ma io ero un lettore appassionato. Intellettualmente io crescevo anche più velocemente dei miei compagni rimasti nella scuola. Io leggevo di tutto. Loro si limitavano alle materie di studio. Ed era questa crescita intellettuale che mi faceva sentire a disagio nel mondo del lavoro manuale.

Ma non sai mai quali sorprese ti riserva la vita. Lavoravo in un negozio come FACTOTUM. Alla cassa spesso c’era una delle figlie del proprietario. Io ne ero preso. Fortemente preso. Lei lo aveva capito. L’avrei sposata volentieri. Ma il fato mi è stato benigno. Se lo avessi fatto ora sarei un negoziante. Magari ricco. Ma solo al pensarlo rabbrividisco. Il mio io inquieto poteva essere soddisfatto solo dalla strada che ho intrapreso successivamente.

Ma non l’ho fatto per merito mio. Fu lei che mi spinse inconsapevolmente sulla strada giusta. Io ancora non avevo capito nulla sulle distinzioni sociali. Anche perché io mi muovevo nella zona di confine di due classi: appartenevo alla classe operaia, ma frequentavo amici di classe media.

Lei era una ragazza diplomata. Figlia di un negoziante benestante e molto conosciuto. Quindi aspirava a fare un “buon” matrimonio. Che non potevo essere io, suo “garzone” di bottega. Per quanto intelligente potessi essere. E me lo confessò in un momento di ammirazione e gratitudine per me.

Era stata “aggredita” verbalmente da un capitano dei carabinieri nel negozio. L’aveva fatta arrivare quasi alle lacrime. Il suo “garzone”, che lavorava nel retrobottega, senti tutto ed intervenne. Tenne testa a quel villano di capitano e lo mise talmente in difficoltà che non gli rimase che chiedere scusa alla ragazza offesa.

Lei, piena di gratitudine per il “garzone”, che aveva saputo difenderla, si confessò. “Senti, Franco, delle volte noi abbiamo dei sentimenti, ma la nostra posizione sociale non ci consente di seguirli”. Avevo capito. Per me non c’era posto. A me toccava la figlia di un operaio, magari anche ignorante.

Quando mi sono sposato ho fatto la controprova. Ero laureato. Insegnavo, anche se ancora non titolare. Mia moglie apparteneva ad una buona famiglia. Maestra elementare titolare. Le chiesi:“se fossi stato un “garzone” di negozio, mi avresti sposato?” “No, non ti avrei sposato”. Mi rispose onestamente.

Questo mi fece capire che la figlia del negoziante aveva ragione. I ruoli sociali erano importanti. L’intelligenza da sola non bastava. Almeno ai miei tempi. Non so se basta ora. Ho aspettato il servizio militare come il momento della liberazione.

Volevo abbandonare la vita civile e intraprendere la carriera militare. Presi, in tutta fretta, il diploma di quinta elementare, che pensavo mi servisse per arrivare al grado di sottufficiale (maresciallo) a fine carriera.

CONTINUA

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