sabato 28 novembre 2009

FRANCO FELICETTI’S STORY (13)

LO STUDIO COME COMPAGNO DI VITA

Avevo trovato un compagno che non mi avrebbe mai abbandonato, né tradito. Lo studio, da quel momento, divenne la cosa più importante per me. Avevo da percorrere un lungo cammino verso il sapere. E volevo percorrerlo tutto. Senza lasciarmi distrarre da nulla. Nemmeno dall’amore.

Quando mi sono fidanzato, dopo essermi laureato, la mia fidanzata ebbe l’intelligenza di capire che sarebbe stata sempre seconda nella mia vita. Prima c’era lo studio, da cui non aveva nulla da temere fintanto che non frapponeva ostacoli. E non lo fece mai, neanche quando la lasciavo con una bambina piccola per andare a fare le mie ricerche a Londra per i tre mesi d’estate.

Londra divenne la mia seconda casa, anche se non riuscì mai a soppiantare Parigi nel mio cuore. L’appuntamento con Londra divenne annuale. Lì esisteva la biblioteca più grande del mondo. Aveva 11 milioni di volumi. Non c’era notizia che non riuscissi a trovare. E poi aveva un’organizzazione efficientissima.

THE BRITISH LIBRARY (la Biblioteca Nazionale inglese) era allogata nel BRITISH MUSEUM, una visita obbligata di ogni turista. La Biblioteca non era aperta al pubblico. Era aperta solo agli studiosi da tutte la parti del mondo accreditati dai loro governi. Io ero stato accreditato dalla nostra ambasciata di Londra.

Per 25 anni Londra divenne, per me, un LUOGO DI SOFFERENZA E DI ESALTAZIONE. Di esaltazione nelle nove ore consecutive di studio. Entravo la mattina alle 9,00 e uscivo alle 18,00. Il pranzo lo saltavo perché facevo una ricchissima prima colazione all’inglese. Il servizio era efficientissimo. I libri che ordinavi ti venivano consegnati alla tua scrivania in pochi minuti.

C’erano studiosi da tutte le parti del mondo. C’erano anche gli americani che pur hanno una grandissima Biblioteca nazionale, THE LIBRARY OF CONGRESS, ma gli studiosi americani dicevano che quella londinese era più efficiente e la vita era meno cara a Londra che a Washington.

In questa biblioteca ho scritto tutti i miei libri, anche il più duro. Quello che mi è costato dieci anni di ricerche: IL GENIO DI UN POPOLO. Questo libro era nato come un atto di accusa contro gli inglesi e doveva essere intitolato I DEPREDATORI DELLA STORIA.

Nella mie ricerche precedenti avevo sommariamente notato che gli inglesi avevano preso a pieni mani da tutti gli altri popoli della Terra. Ci avevano messo il loro marchio e lo avevano riesportato come prodotto tipico della civiltà inglese. Anche Shakespeare, tanto per citarne uno, aveva preso il contenuto delle sue tragedie da altri.

Ma, continuando ad approfondire la ricerca, ho scoperto che questo non era un demerito, ma era la loro GENIALITA’. Allora la ricerca assunse un altro significato. Non più contro gli inglesi, ma un INNO ALLA LORO GENIALITA’. Il ricercatore deve essere, innanzi tutto, intellettualmente onesto. Ed io lo sono stato.

Gli inglesi non hanno mai brillato per l’originalità delle idee. Tutto quello che di tipicamente inglese c’e nel mondo è stato importato da qualche parte. Ma gli inglesi hanno avuto il genio di trasformarlo e renderlo unico.

Giustamente possono essere orgogliosi di questa loro capacità. Anche se l’idea di fondo, il prodotto di base, sia esso un congegno tecnico o un’attività sportiva (come il Polo o il Cricket, per esempio), sono stati presi da altri, è giusto considerare il prodotto finale come una tipica ed originalissima produzione del genio inglese, pronta per essere esportato.

L’era di INTERNET, la RIVOLUZIONE più grande che l’UOMO abbia mai prodotto nella sua storia, mise fine alla mia trasmigrazione estiva a Londra. Prima di internet, se volevi fare ricerca, dovevi andare ad uno dei CENTRI DEL MONDO, che si potevano contare sulle dita di una mano.

INTERNET ha avuto il GRANDE MERITO di aver reso ogni PUNTO GEOGRAFICO del globo, se collegato ad internet, un CENTRO DEL MONDO. Le informazioni, le notizie, i dati continuano a fluire anche se sei all’interno della FORESTA AMAZZONICA. Ecco perché mi sono potuto ritirare a FIUMEFREDDO BRUZIO senza dover rinunciare ad avere LO STUDIO COME COMPAGNO DI VITA.

CONTINUA

ps da venerdi riprenderò le scadenze abituali

giovedì 26 novembre 2009

LA PERFIDA ALBIONE COLPISCE ANCORA

spiacente... ma mi trovo in edinburgo ed un computer cretino, come tutti gli inglesi, non mi consente di mettere on line la puntata di domani... lo faro` domenica al mio rientro

giovedì 19 novembre 2009

FRANCO FELICETTI’S STORY (12)

IL PUNTO DI SVOLTA

Congedato, mi sono affidato a tre docenti. Tutti hanno creduto subito in me. Loro correvano col programma ed io mantenevo abbastanza bene il passo. Mi confermavo un FAST LEARNER. La mia preparazione non era APPICCICATICCIA, come si potrebbe pensare. Il nuovo che apprendevo si innestava in quel sostrato culturale che avevo accumulato in anni di letture ed era perfettamente digerito e rielaborato.

Uno dei miei proff. mi chiese di fare di più. Mi chiese di aiutare un gruppo di giovani che per anni aveva tentato, inutilmente, di superare l’esame di Stato. Prima da interni, poi da privatisti. Erano sette.

L’unico maschietto lo stava tentando per la settima volta. La sua fidanzata era disperata. Uscivano tutti e due da una classe del magistrale. Lei aveva superato l’esame. Lui rimase. Nel frattempo lei aveva vinto il concorso per maestra e passò nei ruoli della scuola elementare.

Aspettava che anche lui prendesse il diploma per sposarsi. Lui era di ottima famiglia. Una di quelle famiglie che contano nel proprio ambiente. Le altre sei, tutte femminucce, avevano ripetuto l’esame dai 3 ai 5 anni. Mi imbarcai nell’impresa.

Avevo fatto un semplice calcolo di convenienza. Se ero costretto a dare ripetizioni a loro, io sarei diventato bravissimo nella conoscenza del programma. E così è stato.

Sono riuscito a portare tutti alla conquista dell’agognato diploma. Al maschietto ho dovuto dare la spinta iniziale. Gli ho consigliato il tema di pedagogia e gli ho dato le indicazioni come svolgerlo. Lui in pedagogia era bravo. Superato il panico iniziale, poi lo svolgimento lo ha fatto da solo.

Avevo capito perché aveva fallito tante volte. Appena dettate le tracce dei temi ebbe un crollo psicologico. e divenne incapace di coordinare le proprie idee. Ma come lingua scritta non era male. Semplice, ma non male.

Tutti ne sono usciti bene. Io ne sono uscito benissimo. Sono stato il secondo nella graduatoria generale di interni e privatisti.

I docenti che mi hanno esaminato sono rimasti impressionati dal mio tema di storia. Il docente di italiano e quello di filosofia mi hanno detto che avevo fatto un tema di FILOSOFIA DELLA STORIA. Avevo dimostrato di conoscere sia la storia che la filosofia. Quindi non mi interrogarono su queste due discipline.

Mi interrogarono sui minori della letteratura italiana. Ma noi avevamo imparato la formuletta per ricordarceli: “GUIDO CAVALCA SANTA CATERINA E PASSAVANTI”.. Quegli otto anni di programma erano stati superati brillantemente.

Avevo il diploma! Era il punto di svolta. I miei incubi notturni erano finiti. Non sarei mai più stato un “GARZONE DI BOTTEGA” o un “BARRISTA” o un “FOTOGRAFO”, come mi vedevo negli incubi. Avevo trovato la mia strada maestra nella vita: LO STUDIO. Quegli incubi non sono mai più riapparsi.

Due episodi mi hanno fatto prendere coscienza della stima che mi ero conquistato. La famiglia del “maschietto” mi volle a pranzo. La tavola era stata imbandita come mai avevo visto in vita mia. Tovaglia ricamata pregiatissima. Posate d’argento. Piatti di porcellana pregiata. Bicchieri di cristallo. Dissi alla madre del mio amico: “signora, perché tutto questo?”. Lei mi prese la mano e se la tenne stretta nelle sue: “figlio! Tu meriti questo”.

L’altro episodio accadde sempre ad un invito a pranzo. Tra le sei femminucce c’erano due sorelle. I genitori mi vollero a pranzo nel loro paese. Non erano altolocati come la famiglia del “maschietto”. Era gente comune, ma dignitosissima. La loro tavola non aveva quella sontuosità come dal “maschietti”. Ma i loro valori erano altrettanto nobili.

Durante il pranzo si rivolgevano a me sempre col “voi”. Li pregai di darmi del “tu”. In fondo ero un collega delle loro figlie. Il padre non volle. “ E’ un segno di rispetto. “Voi” siete stato il professore delle nostre figlie. Senza di “voi” forse non avrebbero mai preso il diploma”.

CONTINUA

giovedì 12 novembre 2009

FRANCO FELICETTI’S STORY (11)

IL FIGLIO DEL GIUDICE

Prima di partire per il militare, il fratello della ragazza del negozio, che aveva fatto le scuole medie superiori nel famoso collegio degli Scolopi di Firenze, mi fece una lettera di presentazione per uno “scolopino” di Arezzo, dove io dovevo fare il periodo di addestramento militare..

Ma non poteva far vedere che raccomandava un “garzone” di negozio. Mi presentò come il figlio di un giudice che non aveva voluto studiare e si era dedicato alla scuderia di famiglia. Una brutta figura non gliela avrei fatta fare. Il mio italiano ero buono. Anche le mie maniere erano buone.

Dalla famiglia dello “scolopino” sono stato trattato con i guanti gialli. Inviti a cena a non finire. Poverino, il figlio del giudice costretto a mangiare quel “rancio” schifoso in caserma! Una cena succulenta per ripagarlo.

Mi fecero visite in caserma in ogni occasione. Mi presentarono a gente che contava, compreso un ufficiale del mio reggimento. Io ero il “figlio del giudice”. Fortunatamente questa farsa finì dopo tre mesi, quando fui trasferito a Pisa.

A Pisa mi resi conto che neanche la vita militare era fatta per me. Ad una cosa, però, era servita: a togliermi il vizio delle carte. Sin da ragazzo passavamo nottate intere al tavolo da gioco. Nelle camerate della caserma si era formato un tavolo da gioco. Ma io mi sono sempre rifiutato.

D’allora non ho più giocato. E questo era coerente col mio carattere. Quando una funzione è finita va eliminata per sempre. Gli inglesi direbbero: LET BYGONE BE BYGONE.

Sotto le armi decisi che nel mio futuro c’era solo lo studio. Potevo farcela. Gli anni da recuperare erano otto. Ma io potevo farcela. In fondo non ero un ignorante TABULA RASA. Le mie letture avevano preparato il terreno. I semi fruttificavano perché non cadevano nei rovi.

Non ho mai preso in considerazione la possibilità di rinunciare a tutto dicendo a me stesso, come fa la stragrande maggioranza dei PERDENTI, “non ho potuto farlo io, farò in modo che l’abbiano i miei figli”. Ma io mi sentivo un VINCENTE.

Sapevo che avrei potuto farcela io ed ai miei figli avrei potuto dare di più. Come, in effetti, è avvenuto. Con la posizione sociale che mi sono saputo conquistare ho dato alle mie figlie una formazione molto avanzata. Le ho potuto mandare a studiare in Inghilterra, per tre anni ciascuna, per farle diventare bilingue.

Avevo capito per tempo che l’inglese sarebbe diventato un PASSE PARTOUT che avrebbe aperto loro qualsiasi porta. Ma, quello che mi è interessato di più è stato aprire i loro ORIZZONTI MENTALI e niente avrebbe potuto farlo meglio di un prolungato soggiorno in una delle più avanzate nazione del mondo.

E tutte e tre sono diventate delle VINCENTI. La prima ha una cultura paurosa. Si è letta quasi tutti i libri del mio studio. Conosce tutta la letteratura inglese e quella italiana. È laureata in lettere moderne. Ha una logica stringente e una dialettica non comune. Ha sempre vinto tutti i concorsi a cui ha partecipato. Al primo, su tremila candidati per due posti, è risultata la seconda. Ha vinto il concorso ordinario per la scuola media e quello per la scuola media superiore. Ora vuole realizzarsi nella scuola, dopo dieci anni in una amministrazione pubblica, ma sta capendo, proprio come aveva capito suo padre ai suoi tempi, che non ci riuscirà da insegnante. Per questo è destinata a vincere anche il concorso a Preside non appena avrà i requisiti per parteciparvi.

La seconda ha una personalità molto equilibrata. È la più saggia delle tre. Ha un forte senso del dovere unito a una umanità ricca. Insegna lingua e letteratura inglese nelle scuole superiori a Milano. I suoi alunni la adorano perché si prodiga per portare tutti al traguardo meritatamente. Grande è la sua disponibilità verso i colleghi. È apprezzatissima dai dirigenti scolastici per la sua completa dedizione alla scuola.

La terza, dopo essersi laureata in chimica in Italia, ha conquistato, vincendo una borsa di studio, il più prestigioso titolo accademico americano: un dottorato quinquennale in biochimica in una delle più prestigiose università degli Stati Uniti. Ha lavorato come TEAM LEADER in una media industria farmaceutica in Inghilterra. Ora, giovanissima, è in Svizzera come ASSOCIATED DIRECTOR nel mega laboratorio della terza industria farmaceutica mondiale. Ha uno stipendio da favola.

Se fossi rimasto operaio, o giù di lì, tutto questo non avrebbero potuto averlo. Sarebbero state ragazze che avrebbero dovuto arrabattarsi per raggiungere una striminzita laurea. Una mia cognata insisteva perché io facessi questo.

Ma io ero cosciente di avere una capacità di apprendimento fenomenale e feci quello che mi sentivo di fare. Mi iscrissi ad una scuola per corrispondenza. La RADIO ELECTRA di Torino. L’obiettivo era il diploma magistrale. Alcune materie mi incutevano timore. La filosofia per esempio. Pensavo di non farcela. Allora chiesi al cappellano della caserma se poteva darmi una mano.

Si dimostrò disponibile. La sua presenza servì solo a darmi la consapevolezza che non c’erano ostacoli che non potessi superare. Infatti, egli si limitava a farmi leggere le dispense della Electra ad alta voce. Di tanto in tanto mi chiedeva se avevo capito quanto letto e se ero in grado di spiegarglielo. Cosa che facevo senza alcuna difficoltà.

Questo mi fece rendere conto che sbagliavo strada. Io avevo bisogno di uno che desse sistematicità al mio studio. Che mi guidasse ad utilizzare sistematicamente e coerentemente tutte le conoscenze che avevo acquisito nei miei anni e anni di “letture”. Agli esami avrei dovuto portare un programma di otto anni. E avrei dovuto studiarlo in un solo anno. Insomma, avevo bisogno di proff. veri. L’Electra era un capitolo chiuso.

CONTINUA

giovedì 5 novembre 2009

FRANCO FELICETTI’S STORY (10)

LE CLASSI SOCIALI COME BARRIERA

Questa crescita culturale caotica mi provocò un forte disagio nei lavori che facevo. Li sentivo inadeguati alle mie esigenze. Nessuno di essi poteva farmi sentire appagato. Capivo che se fossi rimasto a svolgere un mestiere qualsiasi sarei stato un frustrato a vita.

Come titolo di studio avevo la quarta elementare, ma le mie letture mi avevano dato una maturità sociale molto più alta. Il mio italiano non poteva dirsi perfetto, ma era di buon livello. Anche la mia cultura non era da quarta elementare. Possedevo conoscenze molto più ampie.

Il bar mi aveva fatto frequentare ceti sociali di classe media. Anche gli amici che frequentavo erano di classe media. Ma non ho mai rinnegato i miei amici d’infanzia. Soltanto che la via mi aveva spinto a frequentare altre persone che appartenevano alla classe media.

Ma fino a quell’epoca io non facevo distinzioni di classe. Comunque c’era una spinta in me che mi faceva dirigere verso persone migliori di me. Ma non di proposito. Era una cosa naturale. I miei amici d’infanzia, fintanto che si frequentava la scuola elementare, erano misti. C’era il figlio dell’impiegato, il figlio del professionista, il figlio del mio datore di lavoro, come c’era il figlio dell’operaio e c’era anche il figlio del mendicante.

La separazione avvenne dopo la scuola elementare. Chi se lo poteva permettere proseguiva gli studi. Gli altri andavano nel mondo del lavoro. Ed è da questo momento che il solco tra gli amici di un tempo si incominciò ad approfondire. Chi studiava diventava sempre più maturo intellettualmente. Chi era inserito nel mondo del lavoro rimaneva culturalmente povero. Continuare a frequentarsi diventava di fatto impossibile. Le esigenze erano diverse

Io costituivo un caso a parte. Anch’io mi ero inserito nel mondo del lavoro, ma io ero un lettore appassionato. Intellettualmente io crescevo anche più velocemente dei miei compagni rimasti nella scuola. Io leggevo di tutto. Loro si limitavano alle materie di studio. Ed era questa crescita intellettuale che mi faceva sentire a disagio nel mondo del lavoro manuale.

Ma non sai mai quali sorprese ti riserva la vita. Lavoravo in un negozio come FACTOTUM. Alla cassa spesso c’era una delle figlie del proprietario. Io ne ero preso. Fortemente preso. Lei lo aveva capito. L’avrei sposata volentieri. Ma il fato mi è stato benigno. Se lo avessi fatto ora sarei un negoziante. Magari ricco. Ma solo al pensarlo rabbrividisco. Il mio io inquieto poteva essere soddisfatto solo dalla strada che ho intrapreso successivamente.

Ma non l’ho fatto per merito mio. Fu lei che mi spinse inconsapevolmente sulla strada giusta. Io ancora non avevo capito nulla sulle distinzioni sociali. Anche perché io mi muovevo nella zona di confine di due classi: appartenevo alla classe operaia, ma frequentavo amici di classe media.

Lei era una ragazza diplomata. Figlia di un negoziante benestante e molto conosciuto. Quindi aspirava a fare un “buon” matrimonio. Che non potevo essere io, suo “garzone” di bottega. Per quanto intelligente potessi essere. E me lo confessò in un momento di ammirazione e gratitudine per me.

Era stata “aggredita” verbalmente da un capitano dei carabinieri nel negozio. L’aveva fatta arrivare quasi alle lacrime. Il suo “garzone”, che lavorava nel retrobottega, senti tutto ed intervenne. Tenne testa a quel villano di capitano e lo mise talmente in difficoltà che non gli rimase che chiedere scusa alla ragazza offesa.

Lei, piena di gratitudine per il “garzone”, che aveva saputo difenderla, si confessò. “Senti, Franco, delle volte noi abbiamo dei sentimenti, ma la nostra posizione sociale non ci consente di seguirli”. Avevo capito. Per me non c’era posto. A me toccava la figlia di un operaio, magari anche ignorante.

Quando mi sono sposato ho fatto la controprova. Ero laureato. Insegnavo, anche se ancora non titolare. Mia moglie apparteneva ad una buona famiglia. Maestra elementare titolare. Le chiesi:“se fossi stato un “garzone” di negozio, mi avresti sposato?” “No, non ti avrei sposato”. Mi rispose onestamente.

Questo mi fece capire che la figlia del negoziante aveva ragione. I ruoli sociali erano importanti. L’intelligenza da sola non bastava. Almeno ai miei tempi. Non so se basta ora. Ho aspettato il servizio militare come il momento della liberazione.

Volevo abbandonare la vita civile e intraprendere la carriera militare. Presi, in tutta fretta, il diploma di quinta elementare, che pensavo mi servisse per arrivare al grado di sottufficiale (maresciallo) a fine carriera.

CONTINUA